UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI FIRENZE

Facoltà di Economia

Corso di Laurea in Economia dell’Ambiente

 

 

IL  RUOLO  DELLA  TERRITORIALITÁ

NELL’EVOLUZIONE  DELL’AGRICOLTURA .

LA  SVIZZERA COME CASO – STUDIO: VERSO UN’AGRICOLTURA SOSTENIBILE

 

Tesi di laurea di:

Lorenzo Pistolesi

pislore-libro@yahoo.it

 

 

Relatore:

Maria Tinacci Mossello

 

 

 

Anno accademico 2003-2004

 

 

SOMMARIO.. 2.

INTRODUZIONE. 5

1. EVOLUZIONE DELLE CARATTERSTICHE TECNICO-ORGANIZZATIVE DELL’AGRICOLTURA TRADIZIONALE  8

1.1. Gli inizi dell’agricoltura e la territorialità.. 9

1.1.1.     Le origini 9

1.1.2.     La territorialità. 10

1.2. I sistemi di coltivazione delle piante. 12

1.2.1.     Sistemi d’agricoltura discontinua. 12

1.2.2.     Sistemi d’agricoltura intensiva e continua. 15

1.3. Sistemi d’allevamento d’animali 21

1.3.1. Sistemi domestici 21

1.3.2. Sistemi a pascolo. 22

1.3.3. L’allevamento sentimentale. 24

1.3.4. L’allevamento pascolo-stalla. 24

1.3.5. L’allevamento a stalla. 24

2. CARATTERISTICHE ECONOMICO-SOCIALI E FORME DI PROPRIETÁ DELL’AGRICOLTURA.. 26

2.1. Proprietà comune. 26

2.1.1. Società di raccolta e caccia. 26

2.1.2. Società di pastori 27

2.1.3. Comunità agricole. 27

2.1.4. Ruolo attuale e futuro delle comunità agricole. 27

2.2. Proprietà individuale. 28

2.2.1. Le grandi proprietà terriere come residuo del feudalesimo. 28

2.2.2. La grande proprietà e l’affitto della terra. 29

2.2.3. La grande proprietà come grande azienda agricola. 31

2.2.4. La piccola proprietà individuale. 31

2.2.5. La cooperativa agricola. 32

2.2.6. Le riforme agrarie. 32

2.3. La proprietà sociale. 33

2.4. Le aziende agricole. 34

2.4.1. I caratteri strutturali delle aziende agricole. 35

2.4.2. I caratteri economici delle aziende agricole. 36

3. TRANSIZIONE DALL’AGRICOLTURA TRADIZIONALE A QUELLA MODERNA. L’IMPATTO SULL’AMBIENTE  40

3.1. Agricoltura tradizionale e moderna.. 40

3.1.1. L’aiuto della geografia. 40

3.1.2. Tradizione, diversificazione e territorialità. 41

3.1.3. Modernità, omologazione e de-territorializzazione. 43

3.1.4. Interazione tra modernità e tradizione in agricoltura: il caso Italiano. 45

3.2. Agricoltura e ambiente culturale. 47

3.2.1. Un’ipotesi intrigante. 48

3.3. Agricoltura e ambiente fisico.. 50

3.3.1. I prodotti sintetici 50

3.3.2. I pesticidi 52

3.3.3. Resistenza naturale ai pesticidi 56

3.3.4. I concimi minerali 58

3.3.5. Il suolo agricolo. 60

3.4. Agricoltura e ambiente politico.. 63

3.4.1. La Politica Agricola Comune. 63

3.5. Agricoltura e biotecnologie. 65

3.5.1. L’impatto socio-ambientale. 65

3.5.2. La questione politica. 66

3.5.3. L’impatto economico-ambientale. 68

3.6. Agricoltura moderna.. 72

4. TRANSIZIONE DALL’AGRICOLTURA MODERNA A QUELLA SOSTENIBILE. CASO-STUDIO : L’AGRICOLTURA SVIZZERA   75

4.1. Agricoltura sostenibile. 75

4.1.1. Definizione di sostenibilità in agricoltura. 75

4.1.2. Breve storia dell’agricoltura biologica e biodinamica. 77

4.1.3. Territorialità e sostenibilità. 79

4.2. Transizione dell’agricoltura in Europa: aspetto politico.. 84

4.2.1. Gli anni ‘90. 84

4.2.2. La recente riforma della PAC (Luglio 2003). 85

4.3. Cambiamento del sistema territoriale svizzero per la riduzione dell’impatto sull’ambiente nell’agricoltura.. 89

4.3.1. Aspetto politico: la riforma agraria. 89

4.3.2. Aspetto economico. I prodotti biologici 92

4.3.3. Aspetto produttivo: una produzione rispettosa dell’ambiente. 93

4.4. L’agricoltura svizzera: l’importanza del riorientamento degli incentivi diretti (eco-condizionalità). 98

4.4.1. Aspetto ambientale. 98

4.4.2. Aspetto socio-economico. 100

4.4.3. Aspetto sociale. 104

4.5. L’agricoltura svizzera: importanza della riduzione degli incentivi indiretti 105

4.5.1. Incentivi indiretti: inefficienza e inefficacia. 105

4.5.2. L’aspetto economico-ambientale. 106

4.6. Relazioni tra riorientazione degli incentivi e riduzione degli incentivi indiretti. Effetti economici e ambientali 110

4.6.1. Cambiamento politico. 111

4.6.2. Aspetto biologico della riduzione della produzione. 113

4.6.3. Effetto sul prezzo: un’attrito di forze. 114

4.6.4. Effetto sull’ambiente. 116

5. IL SISTEMA TERRITORIALE SVIZZERO: UNA “V.I.A.” PER L’AGRICOLTURA SOSTENIBILE (CONCLUSIONI) 118

5.1. Cambiamento strutturale. 118

5.1.1. Dell’offerta dei beni agricoli 118

5.1.2. Del mercato del lavoro. 120

5.1.3. Della spesa della Confederazione. 120

5.1.4. Del conto economico delle aziende. 121

5.1.5. Della volontà comune per un’agricoltura sostenibile. Il principio di neutralità. 123

5.2. Il mercato dell’agricoltura biologica.. 125

5.2.1. Domanda e offerta. 125

5.2.2. Confronto tra aziende a coltivazione biologica e non biologica. 126

5.2.3. Un indice di valutazione della contre-performance ambientale delle aziende. 134

5.3. Il governo delle esternalità.. 139

5.3.1. La “V.I.A.” per la sostenibilità dell’agricoltura svizzera. 141

5.3.2. Valutazione semplificata dell’impatto ambientale potenziale dell’agricoltura svizzera. 143

5.3.3. Relazione inversa tra performance ambientale dell’azienda e RS. In concreto, come si calcolano gli incentivi? Il caso di una CC.. 147

5.4. Considerazioni finali ipotetiche e tutte da dimostrare. 149

5.4.1. La differenziazione dei prezzi come condizione necessaria verso un’agricoltura sostenibile. 149

5.4.2. L’evoluzione dell’agricoltura (territorialità e sostenibilità). 152

5.4.3. Un’ipotesi conclusiva. 154

5.5. Conclusioni 155

5.5.1. Conclusione logica della tesi 155

5.5.1. Conclusioni personali 157

APPENDICE. 159

BIBLIOGRAFIA: 166

Testi :. 166

Pubblicazioni ufficiali: 168

Riviste : 169

Siti Internet: 169

 

 

 

 

 

 

 


INTRODUZIONE

 

L’agricoltura è la più anziana forma di produzione inventata dall’uomo e da circa 12000 anni, non ha mai cessato di essere la nostra base d’esistenza. Nell’agricoltura interagiscono tre logiche diverse: ecologica, biologica e antropologica; essa può essere considerata l’interfaccia tra uomo e natura, il punto d’incontro, l’intersezione (Raffestin, 1997). Il suolo agricolo è soggetto sia all’influenza dell’uomo, con il suo lavoro (manuale, di analisi, di attesa, di trasmissione nel tempo), sia a quella della natura, con il clima, le stagioni, gli animali, i parassiti, l’acqua, ecc. Nel corso della storia, infatti, il suolo agricolo si è trasformato a seguito dell’evoluzione delle condizioni eco-biologiche e delle condizioni antropologiche, così da diventare uno specchio che riflette le due variabili uomo-natura (cfr par 1.1.2. e 3.1.2.).

L’agricoltura ha avuto sempre la doppia caratteristica di produrre del “vivente” e restituire più di quello che veniva investito ovvero un surplus agricolo (cfr par 3.2.). Fino a qualche anno fa, nell’agricoltura, l’energia prodotta era uguale o maggiore dell’energia impiegata, cioè il totale dei fattori produttivi (lavoro, sementi, concimi naturali, animali) era minore della produzione lorda, necessaria al sostentamento (cfr cap 1. e 2.); un bilancio negativo si sarebbe tradotto, una volta finite le scorte, in malnutrizione e fame, basti pensare ad alcuni paesi ad agricoltura di sussistenza ancora presenti nel Pianeta.

Fortunatamente, adesso il sistema è cambiato, così che, a controbilanciare una produzione agricola sempre crescente e dipendente dal mercato, c’è un più che crescente apporto di input (fisici, energetici ed economici) esterni ad essa, che rendono il bilancio netto (fisico, energetico ed economico) negativo (cfr cap 3.). Oggi, nei paesi industrializzati questo bilancio negativo, se non fosse stato per le esternalità negative che esso stesso ha generato, sarebbe stato difficilmente percepibile

Diventando un’appendice dell’economia, l’agricoltura, non ha dovuto più rispettare le leggi della termodinamica, proprio perché è diventata uno strumento di un sistema più grande, che la usa e la protegge. Ma un bilancio ecologico ed economico negativo si traducono in una perdita continua di capitale fisico[1] e sociale[2].

Produrre del vivente per i viventi, significa disporre di una straordinaria autonomia territoriale, e una società che riduce il suo stock di capitale fisico e sociale, riduce la sua autonomia sia da un punto di vista ecologico, che da un punto di vista economico. In questi ultimi anni, la perdita di suolo agricolo per cause di dissesto idrogeologico, di dilavamento del terreno, di perdite di sostanze nutritive data dall’utilizzo intensivo del suolo agricolo è stata molto forte. Infatti l’agricoltura, essendo lo specchio delle variabili uomo-natura, riflette una società più incentrata sull’economia, in cui l’agricoltura ricopre un ruolo marginale, quale strumento dell’economia.

L’agricoltura diviene la fonte e il bersaglio di una serie di stress di natura ecologica e antropologica, ma l’agricoltura è la fonte della catena alimentare dell’uomo. Da qui il bisogno di una produzione il più possibile sana e ricca di principi nutritivi, il più possibile diversificata, senza rischi o danni per la salute umana e per l’ambiente; senza contare l’importanza sempre crescente dei servizi (multifunzionalità, par. 4.3.) che l’agricoltura offre, si pensi a certi programmi di riabilitazione per tossicodipendenti o per persone con problemi psicologici.

Se l’agricoltura rappresenta la nostra storia, il nostro passato, è altrettanto vero che essa rappresenta il nostro futuro e, non come problema economico ed ecologico da risolvere, ma come opportunità data all’uomo di vivere la “creazione”, come opportunità per l’economia di migliorare la sua efficienza sociale (cfr cap 4.) e come opportunità di aprire le sinergie contenute nella relazione uomo-natura.

Da qui, l’esigenza di una ricerca, questa, che non si perda nello specifico, ma che mantenga sempre una buona prospettiva spaziale e temporale. Proprio questa prospettiva permette di aver sempre una percezione più oggettiva del ruolo dell’agricoltura.

Questa ricerca non ha la pretesa di trovare le soluzioni alla sostenibilità, ma semplicemente descrive nel tempo l’evoluzione dell’agricoltura, attraverso l’ausilio della territorialità. Per poter capire il futuro bisogna prima cercare di capire il passato, perché è nel futuro che si manifestano gli effetti delle cause poste nel passato. Il presente è l’incontro di cause passate ed effetti futuri, che, nell’agricoltura, trovano un fil rouge. Con la “territorialità” (cfr par 1.1.2.) si evidenziano le differenze tra agricoltura tradizionale e moderna (cfr par 3.1.), la prima rivolta al passato e la seconda al futuro.

Attraverso un metodo sistemico, ho organizzato i lavori seguendo un ordine cronologico diviso in tre periodi ben distinti e distinguibili. L’evoluzione dell’agricoltura può essere riconducibile ad un albero, nel quale:

·        le radici rappresentano la multiformità dell’agricoltura tradizionale (cap 1 e 2), che rimangono sempre impermeate nel passato;

·        il tronco rappresenta l’uniformità dell’agricoltura moderna (cap 3) e la sua strutturazione produttiva;

·        il fusto rappresenta la multifunzionalità dell’agricoltura sostenibile (cap 4 e 5) e la sua sinergia produttiva con l’ambiente;

 

La territorialità s’inserisce in questo schema, andando ad evidenziare il forte legame che c’è tra passato, presente e futuro; tra agricoltura moderna e tradizionale, come due aspetti indissociabili dell’agricoltura sostenibile (cfr par 3.1.). Ogni capitolo ha almeno un paragrafo dedicato alla territorialità e all’evoluzione all’interno dell’agricoltura.

Tramite questo percorso cronologico, si evidenziano gli aspetti dinamici dell’evoluzione, ovvero le transizioni da una forma ad un’altra, si mettono in evidenzia (con la territorialità) i cambiamenti avvenuti, cercando di dare un significato olistico riconducibile ad un sistema territoriale che si estenda nel tempo e nello spazio (cfr par 4.1.3).

Nel sistema agricolo territoriale (punto d’arrivo di questa ricerca) convergono logiche dettate dalle tradizioni che arrivano dal passato, logiche economiche del presente e logiche di sostenibilità che “vengono dal futuro”. In questo punto d’incontro e d’intersezione ho preferito parlare di sistema territoriale, proprio perchè le relazioni tra i soggetti (tramite il mercato e l’ambiente) passati, presenti e futuri, sono in continua evoluzione.

Questo percorso è approdato su una breve analisi sistematica del sistema territoriale svizzero, il quale è riuscito a creare all’interno dell’agricoltura delle economie ambientali crescenti (cap 5). Economia, politica, ecologia e la società stessa, convergono su un modello di agricoltura sostenibile. Azzardando l’ipotesi che il sistema territoriale compia, attraverso il mercato, una vera e propria V.I.A. (par 5.2.3.), sono riuscito a trovare un indice che esprimesse tale valore, ordinando le aziende in base all’impatto che esse hanno sull’ambiente.

 

 

 

 

1. EVOLUZIONE DELLE CARATTERSTICHE TECNICO-ORGANIZZATIVE DELL’AGRICOLTURA TRADIZIONALE

 

Da sempre l’agricoltura ha esercitato un notevole impatto sull’ambiente. Tra le diverse attività umane, l’agricoltura è quella che maggiormente ha cambiato il paesaggio in maniera sostanziale. Foreste che lasciano il posto a campi e a praterie, sono l’esempio più lampante. Canali d’irrigazione, bonifiche, nuovi assetti fondiari, silvicoltura, hanno praticamente cancellato le zone di natura incontaminata. Oggi, nell’immaginario collettivo, è piuttosto il paesaggio agricolo ad essere percepito come “natura”. 

Una caratteristica dell’impatto dell’agricoltura sull’ambiente si ritrova nella sua estensione, sia di carattere spaziale, sia temporale: sappiamo che l’agricoltura, in modi e forme diverse, è praticata in tutto il mondo e sappiamo anche, che essa è stata la prima attività dell’uomo a produrre un impatto rilevante sull’ambiente; un impatto che si estende dunque nel tempo e nello spazio. La trasformazione del paesaggio è avvenuta nei secoli, gradualmente, cosicché oggi il paesaggio agricolo è diventato una costante del territorio alla quale non facciamo più caso. Ci colpiscono, al contrario, quelle zone nelle quali l’attività agricola si è arrestata, le quali si mostrano ai nostri occhi come “abbandonate”.

La maggior parte delle zone ecumeniche esistenti sulla terra sono state modellate, in misura più o meno rimarcabile, dal lavoro dell’uomo in agricoltura. L’agricoltura, e il paesaggio che ha creato l’uomo tramite essa, sono diventate una costante del tessuto quotidiano delle società, tradizionali o moderne, che va ben al di là del puro fatto geografico o economico.

Il posto che spetta all’agricoltura è spesso sottostimato, la percezione che si ha e l’uso che se ne fa, è ancora troppo limitato al mero aspetto produttivo siano essi beni o servizi, essa accompagna l’uomo nella storia, sia in epoca preindustriale, industriale, che postindustriale.

 

 

 

 

1.1. Gli inizi dell’agricoltura e la territorialità

 

1.1.1.   Le origini

Nell'epoca in cui ebbe origine l'agricoltura, l’uomo provvedeva ai suoi bisogni alimentari sfruttando direttamente ciò che la natura produceva spontaneamente. A quel tempo, l’impatto sulla natura era molto limitato e lo spazio vitale per sopravvivere era molto esteso: dai 10 km²/abitante fino ai 140 km²/abitante per i climi più difficili. Questo stato di cose rimase inalterato fino alla scoperta della coltivazione delle piante. La prima forma di agricoltura era molto invasiva. Si praticava una coltivazione del terreno temporanea previa distruzione, mediante incendio, della foresta o della macchia. L’agricoltura itinerante ridusse lo spazio vitale necessario per vivere: da 0,5 a 1,3 km²/abitante per la pastorizia nomade e da 0,03 a 0,5 km²/abitante per l’agricoltura discontinua. Per fare un raffronto oggi, lo spazio vitale sufficiente varia da 400-800 m²/abitante nei paesi che soddisfano i loro bisogni alimentari con la produzione interna (Egitto, Cina) e da 3500 a 7500 m²/abitante per i paesi d’esportazione agricola (Francia, USA). Questi primi dati ci danno una misura dell’aumento d’efficacia e d’efficienza che l’uomo ha prodotto, nell’utilizzare la natura per produrre il cibo di cui aveva bisogno. Il rapporto è nell’ordine di 1 a 10.000; in altri termini, la quantità di terreno che prima bastava appena a far sopravvivere un solo essere umano, adesso è sufficiente a sfamare oltre 10.000 persone (PNUE, 2000).

Le fonti archeologiche ci dicono, con certezza, che nel nono millennio a.C. sulla Mezzaluna Fertile esisteva già un’agricoltura primitiva, costituita dalla coltivazione di cereali (Kostrowicki, 1980). Diffusasi successivamente nelle zone tropicali, l’agricoltura si diversificò nella coltivazione di piante che forniscono radici, rizomi e tuberi, mentre nella steppa diventò pastorizia nomade.

Ci sono anche i sostenitori (Sinskaja, 1969) del policentrismo, che ipotizzano che i luoghi di nascita dell’agricoltura siano stati più di uno. Le regioni sarebbero cinque: Mediterraneo antico, Est-asiatico, Sud-asiatico, Africano e Nuovo Mondo. Ogni regione presentava delle differenze sostanziali riguardanti le forme d’agricoltura primitiva, relative al differente uso dell’irrigazione e la diversa importanza e utilizzo del bestiame. Con l’invenzione dell’agricoltura ci fu un vero e proprio boom demografico.

Sembra che l’evoluzione dell’agricoltura, almeno dal punto di vista tecnico-organizzativo, possa essere immaginato come una figura che si avvicina al rombo (Kostrowichi, 1980): inizialmente formata da un piccolo numero di forme di coltivazione essa si è diversificata, in misura del suo ampliarsi nello spazio e nel tempo, in una miriade di differenti combinazioni tecnico-organizzative. È affascinante immaginare quanto l’agricoltura possa esprimere le differenze che ci sono sul nostro pianeta, inserendosi a pieno nel rapporto uomo-natura.

 

1.1.2.   La territorialità

Altrettanto interessante è rendersi conto di quanto l’agricoltura possa esprimere la “territorialità”, poiché è il risultato dell’interazione del fattore ambiente (clima, territorio, paesaggio), con il fattore umano (uomo, società, cultura, religione) attraverso il tempo. L’agricoltura, in altri termini, attraverso la sua varietà, dimostra quanto complesso e poliedrico è il rapporto tra l’uomo e l’ambiente (v. tab 1 in appendice). Fino a pochi anni fa, era l’unica vera attività per mezzo della quale l’uomo poteva interagire col territorio, accrescendone le differenze e aumentandone le specificità. Considerando la superficie, le zone agricole sono pur sempre le più estese e molto stabili nel tempo.

Introduciamo la definizione di territorialità data da Claude Raffestin (1986) come “L’insieme delle relazioni che i gruppi e di conseguenza, i soggetti che ad essi appartengono, sviluppano con l’esteriorità e con il territorio, grazie all’aiuto di mediatori e nella prospettiva di raggiungere la più grande autonomia possibile, compatibile con le risorse del sistema”.

L’agricoltura sembra proprio essere un mediatore incontrastato della territorialità, attraverso la quale il lavoro dell’uomo ha saputo ottenere la più grande autonomia possibile, relativamente ad ogni determinato territorio. Le risorse di ogni sistema territoriale attraverso l’agricoltura sono state sfruttate al meglio, attraverso un incremento graduale dell’efficienza agricola.

Nell’ “ecogenesi territoriale”, termine coniato da Raffestin (1986), l’agricoltura ha sempre svolto un ruolo determinante, distintivo, modellando i paesaggi e regolando la vita dell’uomo. L’evoluzione dei sistemi territoriali, intesi come strutture autorganizzate, segue alcune delle regole delle strutture dissipative inorganiche (Prigogine e Stengers, 1979): irreversibilità, livelli soglia, memoria genetica codificata, gradienti, attrattori, ecc., senza che queste siano determinanti. Cosicché ogni forma di agricoltura tradizionale è portatrice di un codice genetico territoriale che modella i paesaggi e influisce sulla cultura e sulla società in modo caratterizzante e autoreferenziante, ovvero, l’agricoltura tradizionale intesa, non semplicemente come attività necessaria all’uomo per soddisfare i propri bisogni alimentari, ma come chiave d’accesso per capire il passato e il presente. Ogni forma di agricoltura tradizionale è portatice di una specificità territoriale che la porta, in maniera sistemica, a completare l’olisticità del mondo. Più le forme d’agricoltura si differenziano e più che il sistema mondo evidenzia la sua complessità, e conseguentemente la sua stabilità. Dovremmo pensare ai confini geografici tra un sistema territoriale ed un altro, non come una linea ben definita, ma come un graduale passaggio dalle infinite sfumature, che partecipa a “disegnare l’affresco della creazione”.

L’industrializzazione dell’agricoltura e la mondializzazione recente hanno un po’ perturbato questa specificità territoriale, che nel passato aveva prodotto e arricchito, per sedimentazione, il territorio locale e trasmesso da una generazione all’altra i principi dell’auto-organizzazione, che coincide con l’identità (attiva) del sistema locale (Cahier Geographique, 2002). L’agricoltura moderna ha ridotto notevolmente la territorialità nell’agricoltura, che la faceva portatrice del “codice genetico territoriale”, uniformandosi a poche forme veramente distintive. Si pensi al controllo che le multinazionali esercitano sui flussi di sementi (Ogm), di pesticidi e di concimi per avere un’idea di quanto la de-territorializzazione sia in atto già da tempo.

Tuttavia il fenomeno dell’estinzione di forme agricole arcaiche e tradizionali non ci deve spaventare, soprattutto perché è una costante evolutiva di ogni sistema, ma la sistematica riduzione della diversità a poche forme veramente distintive potrebbe porre molti problemi.

Nei prossimi paragrafi andremo a vedere le forme d’agricoltura presenti sulla terra, classificate secondo il Kostrowicki (1980).

 

 

 

 

 

1.2. I sistemi di coltivazione delle piante

 

1.2.1.   Sistemi d’agricoltura discontinua

 

1.2.2.   Sistemi d’agricoltura intensiva e continua

 

Per migliaia d’anni, il 60-70 % della popolazione del mondo è vissuta in condizioni caratterizzate dall’agricoltura irrigua, garantendo un benessere sociale che, riflettendosi sul mondo scientifico e artistico dell’epoca, ha permesso di raggiungere elevati livelli di civiltà (Kostrowicki, 1980). L’agricoltura irrigua, specialmente quella cinese, ha raggiunto un equilibrio e una stabilità mai vista prima, anche nei confronti dell’agricoltura industrializzata.

Se ancora oggi la superficie di terre irrigue sta continuando ad aumentare, lo si deve in principal modo alla regione dell’Asia meridionale che è l’unica regione con un trend positivo (PNUE, 2002).  Sui  255 milioni di ettari di terra irrigua che conta il mondo, circa 180 fanno parte di tale regione, inoltre dai 25 ai 30 milioni di ettari hanno subito una degradazione pronunciata a causa della eccessiva salinizzazione e circa 80 milioni di ettari soffrono in generale di problemi di saturazione e salinizzazione (FAO, 1995). L’uso non sostenbile della terra si porta seco, indirettamente, il problema della deforestazione, necessaria per equilibrare le perdite di terreno e fertilità.

·        Sistemi intensivi senza irrigazione. Già nei sistemi ad agricoltura mobile, nei villaggi e nelle immediate vicinanze, si ritrovano delle coltivazioni ad agricoltura continua. Il villaggio è pur sempre un punto di concentrazione di materia organica che può essere impiegata per concimare, consapevolmente o inconsapevolmente. I Kigazi, che vivono nella parte sud-orientale dell’Uganda e nel Ruanda, grazie ad un’agricoltura molto intensiva hanno raggiunto in una regione di circa 1000 km² una densità di popolazione che va da 200 a 400 abitanti per km², anche in mancanza di bestiame. I Kikuya del Kenia, grazie anche alla concimazione con deiezioni ovine, mantengono circa 160 abitanti per km². I Chaga, alle falde del Kilimangiaro, arrivano a 250 abitanti per km² (Gourou 1953). L’agricoltura intensiva era presente anche nell’America pre-colombiana, oltre che nei paesi monsonici. In Europa, dove le precipitazioni sono sufficienti, il fattore riduttivo per l’agricoltura continua è stato soprattutto il suolo, quindi la concimazione dei terreni. Si formava un circolo vizioso dato dal fatto che, il bestiame serviva per concimare e che la terra doveva essere usata soprattutto per coltivare le piante per sfamare gli uomini e non per foraggiare gli animali. Un altro fattore che permise il passaggio dal maggese all’agricoltura intensiva fu l’introduzione nell’avvicendamento di piante molto produttive, come il mais e le patate. Un tipo di avvicendamento ancora presente nell’Europa meridionale, USA, Asia sud-orientale, Africa e Vicino Oriente è quello dell’alternanza tra frumento e mais. Un altro sistema d’avvicendamento è formato da, in ordine cronologico, mais, maggese nero, frumento, incolto (Meryland). Nei territori più aridi: maggese, piante invernali, piante da tubero, piante primaverili. I fattori che permisero il passaggio dal maggese all’agricoltura continua furono molteplici: maggior impiego di lavoro umano, maggior impiego di capitale e le condizioni naturali. La coltura intensiva non necessariamente significava rese più alte e inoltre non esiste una via universale di progresso dell’agricoltura, che tra l’altro non è sempre crescente. L’introduzione delle piante da tubero e delle papillonacee, aumentò la quantità di foraggio per il bestiame, il quale permise, per effetto del concime, rese maggiori. Soltanto un’agricoltura fondata su fondamenti scientifici può assicurare la crescita della produttività della terra, indispensabile in condizioni di crescita demografica accelerata.

·        Sistemi d’agricoltura industrializzata. I primi ad intraprendere degli studi sull’agricoltura furono i Greci e i Romani, poi solo con l’Illuminismo si riprese l’indagine della natura e dell’agricoltura. Il rapido incremento demografico e la fuga dalle campagne, lo imponevano, in modo d’assicurare una produzione continua, ininterrotta e più abbondante, rispondente alle nuove condizioni sociali. Tuttavia nel corso di questi ultimi cento anni il progresso ha avuto un’evoluzione maggiore che nel corso dei millenni precedenti. La conoscenza agricola si è dissociatà dalla pratica, dando ulteriore impulso allo sviluppo della geologia, metereologia, climatologia, idrologia, agronomia, chimica, biologia e infine dell’ingegneria genetica. Con la “rivoluzione verde”, avvenuta nel Dopoguerra, l’agricoltura ha beneficiato di una razionalizzazione e massimizzazione produttiva dovuta alla:

1.      Concimazione dei terreni. Nel 1840 Justus von Liebig scoprì che le piante hanno bisogno del potassio, del fosforo, dell’azoto e di alcuni microelementi come il ferro, il manganese, lo zinco, il rame, il cobalto, il molibdeno e altri. L’utilizzo dei concimi chimici permise un aumento del 50-60 % della resa per ha, oltre che un aumento dei costi materiali (Kostrowicki, 1980). Tuttavia tra concimi chimici e letame, i risultati sono differenti, nel breve periodo migliori per i primi, ma nel lungo periodo migliori per il secondo. Nell’insieme il secondo sembra avere rese minori, ma è il solo a mantenere l’humus nel terreno, evitando fenomeni di erosione e lisciviazione. I concimi chimici andrebbero usati in sinergia con i concimi organici, senza mai sostituirli del tutto.

2.      Avvicendamento delle piante coltivate, con lo scopo di migliorare le condizioni di crescita e d’utilizzazione dei suoli, e d’incrementare la fertilità. È l’elemento fondamentale dell’organizzazione moderna della produzione vegetale per l’azienda agricola. L’ordine si divide in elementi: il primo elemento dell’avvicendamento non è un cereale, così da costituire una buona coltura di rinnovo per le altre piante; l’ultimo elemento è un cereale. Inoltre esistono anche seconde semine, che aumentando il grado di flessibilità, favoriscono lo smercio. Non è corretto raccomandare l’adozione di un unico sistema d’agricoltura a prescindere dalle condizioni locali.

3.      Impianti idro-climatici, costruiti dapprima in Egitto e in Sudan, essi permisero, sia di aumentare la coltura del cotone, sia di passare all’agricoltura continua: nel 1902 fu costruita la prima diga di Assuan, sopraelevata nel 1912 e nel 1933 e definitivamente riprogettata e ricostruita negli anni ’80. Al posto dell’antica irrigazione per sommersione alluvionale, si praticano numerose irrigazioni a solchi durante l’anno. Si sostituirono le colture, introducendo il cotone, il riso e la canna da zucchero, migliori per essere smerciate sul mercato. Se l’Egitto era, in passato, il paese delle eccedenze agricole, oggi non produce una quantità di cibo sufficiente per la popolazione indigena. Unica pianta alimentare introdotta fu il mais, che ha sostituito il frumento. I raccolti inizialmente aumentarono, com’è naturale che avvenisse, grazie alla millenaria riserva di fertilità del suolo mantenuta dall’irrigazione per sommersione, poi però i raccolti cominciarono a diminuire e diminuiscono tuttora. Anche nell’Indo e nelle regioni aride del Pakistan e dell’India l’irrigazione continua mediante canali, non è rimasta senza effetti dannosi: saturazione idrica e eccessiva salinizzazione del suolo; il che ha reso necessario lo scavo di canali di scolo. Al momento attuale, la Cina possiede la maggior quantità di terre irrigate del mondo. In USA l’utilizzo dell’acqua ha esaurito le falde sotterranee, costringendo trivellazioni sempre più profonde, inoltre le acque usate cariche di concime in eccesso, trasportate dal Mississippi fino al Golfo del Messico, contribuiscono alla formazione delle maree nere d’infiorescenza algale, famose anche nel nostro Adriatico (cfr par 3.3.4.). La moderna agricoltura consente lo sfruttamento di regioni precedentemente troppo aride, anche se talvolta i rapporti di conduzione della terra limitano la sua reale efficacia. In quasi tutto il mondo si assiste alla sostituzione dell’irrigazione per sommersione con quella a solchi con acqua di fiume, con aumento della produttività e della complessità. Le bonifiche, infine, hanno giocato un ruolo importante nell’agricoltura, effettuate per rendere coltivabili determinate zone paludose e per strappare al mare terre coltivabili (Polder).

4.      Miglioramento e difesa delle piante coltivate, attraverso la selezione e l’incrocio di piante. Già negli anni ‘50 il frumento Norin, permise una resa di 60-90 q/ha. La sua introduzione pose non poche difficoltà in termini di minore resistenza alle malattie e ai parassiti, della necessità d’una forte concimazione minerale e di un’accurata azione di difesa fitosnitaria, cosa che impose una ristrutturazione del sistema agricolo e che accellerò quel processo di decomposizione del villaggio rurale, nel quale i piccoli coltivatori, incapaci di adeguarsi al nuovo sistema agricolo, vennero “scacciati” dai contadini benestanti meglio adattati. Le conseguenze negative dell’uso dei pesticidi sono enormi, essi eliminano molti animali che combattono i parassiti stessi e molti insetti che impollinano le piante, lasciando abbondanti residui tossici nocivi (cfr. par 3.3.2.).

5.      La meccanizzazione dell’agricoltura si è diffusa soltanto là dove le condizioni naturali sono favorevoli, dove le aziende sono grandi, dove la manodopera non è a buon mercato e dove prevale la coltivazione dei cereali cioè in Canada, Argentina, Australia, Stati Uniti, Russia e dopo la seconda guerra mondiale anche in Europa. Il rapporto tra SAU (Superficie Agricola Utile) e trattori è maggiore per Europa e USA, minore per la Russia e l’Europa dell’Est. L’azienda agricola meccanizzata è sempre meno dipendente dalle variazioni del tempo e sempre più dalle fluttuazioni del mercato. Oggi l’industria interviene direttamente nella produzione agricola fornendo all’agricoltore macchine, energia, sostanze chimiche e sementi. L’incremento della meccanizzazione porta ad una sempre maggiore produttività del lavoro, ma con piccoli incrementi di produttività della terra; senza dimenticare che già dagli anni venti ci si rese conto della dannosità della monocultura. Nel mondo, tuttavia, continuano a predominare il lavoro manuale e la forza motrice degli animali (Kostrowichi, 1980).

 

Come vedremo nei prossimi capitoli, la troppo aggressiva attività agricola dell’uomo ha provocato assai spesso la distruzione dell’ambiente di cui esso si serviva e il conseguente abbandono, dell’agricoltura, dai territori precedentemente sfruttati e talvolta anche d’interi popoli e civiltà. Ne sono testimonianza i nudi pendii collinari distrutti dall’erosione su grandi estensioni di territori dall’Atlantico, ai bacini fluviali cinesi, ricoperti un tempo di boschi, prati e pascoli o campi; terreni dove l’insufficiente conoscenza delle condizioni naturali e/o un’economia di rapina ai fini di profitto, hanno portato ad una sconfitta dell’uomo, con effetti irreversibili. Negli USA già dal 1930 l’erosione fu riconosciuta ufficialmente come un grave pericolo per la società (Wissmann, 1956).

 

 

1.3. Sistemi d’allevamento d’animali

 

Non si sa se l’allevamento provenga dalla caccia oppure dalla pastorizia. Esistono varie conduzioni d’allevamento, in relazione all’utilità e al suo rapporto con l’agricoltura:

·        marginale, secondario rispetto alla coltivazione delle piante;

·        sentimentale, non utilitaristico;

·        senza coltivazione delle piante;

·        collegato alla coltivazione delle piante

Ecco qui di seguito una classificazione abbastanza esaustiva delle forme d’allevamento, anch’essa riprende quella del libro “Geografia dell’agricolutra” del Kostrowicki (1980).

 

1.3.1. Sistemi domestici

Essi erano già presenti nell’agricoltura mobile ad incendio di bosco e in quelli ad incendio di macchia. Gli animali venivano utilizzati per il traino e come fonte di concime e avevano una grande libertà di movimento, potendo in alcuni casi arrivare a pascolare intorno alle case.

 

1.3.2. Sistemi a pascolo

La caratteristica di tali sistemi è di far uso esclusivamente della vegetazione spontanea per il nutrimento degli animali:

·        Pastorizia nomade. Partendo dai confini della Cina, attraverso la Mongolia, l’Asia centrale, il Vicino Oriente, l’Africa meridionale atlantica e poi, partendo dall’India orientale, lungo i confini delle grandi regioni boscose di Asia ed Europa, fino alla Polonia, la Moldavia e alla pianura ungherese, si estendevano un tempo immense regioni di steppe, circondate da radi boschi aperti, definiti come “steppe boscose” e interrotte soltanto dai deserti. Dato che il clima passava dal secco estivo al freddo (con presenza di neve) invernale, tipico del clima continentale, era necessaria la migrazione del gregge. Quei popoli da sedentari divennero nomadi e la nomadizzazione ebbe un effetto a catena, cosicché i popoli nomadi crebbero di numero e in potenza, grazie anche ai saccheggi, alle scorrerie e all’assoggettamento dei popoli sedentari. Successivamente accadde il processo inverso, via via che si costituivano gli stati moderni che disponevano d’eserciti e d’armamenti, si ridusse la preponderanza militare dei nomadi sui sedentari. D’allora il numero dei nomadi è calato e quelli che sono rimasti sono fortemente influenzati dai popoli sedentari.

·        Sistema otgonny. Caratteristica di questo sistema è il compromesso tra le esigenze dei popoli sedentari (ex-URSS) e le esigenze di quelli nomadi (Kazachi). Conservando il pascolamento migrante e utilizzando l’esperienza pluriennale della pastorizia nomade, tale sistema unisce i dettami della scienza moderna alla tradizione. Nella pratica ci fu la creazione, nei luoghi di svernamento degli animali, di scorte indispensabili a causa del ghiaccio e della neve, la creazione d’abbeveratoi lungo le piste di transito, la presenza di punti di assistenza sanitario e veterinaria, la meccanizzazione della produzione (forniture di fieno, acqua, tosatura delle pecore, mungitura delle mucche, macello e trasporto) e l’organizzazione di condizioni culturali e di vita. Il sistema otgonny è la forma più razionale e intensiva d’allevamento pastorizio (Kostrowicki, 1980).

·        Pastorizia migrante stagionale, che a differenza degli altri sistemi, utilizza alternativamente due pascoli, ciascuno dei quali nutre gli animali che per una parte dell’anno. Nel gruppo solo una parte della popolazione resta nomade, ma la maggior parte degli abitanti resta nelle loro sedi, occupandosi della coltivazione dei campi. La transumanza è legata, quindi, a determinate condizioni naturali, geografiche: l’esistenza di regioni pianeggianti, temperature invernali sopra i sei gradi e presenza di montagne per il pascolo estivo. In Spagna si sviluppò enormemente (la Mesta o la Dogana) la transumanza, grazie alla quale si produceva la famosa lana merinos, alla base dello sviluppo delle prime industrie tessili europee. La transumanza era presente anche in Italia, in Francia, poi in Romania (durante la dominazione turca), nell’ex-Yugoslavia, nei paesi balcanici, nel Maghreb, in Turchia, Iran, Iraq, ma non nei paesi tropicali. Essa è ancora in via di sviluppo là dove si sta sostituendo alla pastorizia nomade.

·         Pastorizia montana estiva, presente sulle Alpi e Pirenei. Caratteristica di questa pastorizia è la breve distanza dei pascoli, situati ad altitudini differenti e di conseguenza la marcata presenza dei bovini. Essa può essere coadiuvata dal turismo. Presente anche sugli Appennini come pastorizia montana mediterranea.

·        L’allevamento al pascolo di renne. Il suo addomesticamento è posteriore a molti altri animali. L’allevamento delle renne è presente in alcune zone dell’Eurasia. Molto è stato scritto sul fatto che le migrazioni delle renne addomesticate coincidano con le migrazioni delle renne selvatiche, che l’uomo ha osservato e che si è limitato a seguire. In altre parole è l’uomo che si è “addomesticato” alla renna, seguendola nei suoi spostamenti. Come il cammello nel deserto, così la renna è l’animale della provvidenza per l’Artide, esse procurano il tiro per le slitte, il latte, la carne e gli abiti caldi. Sulle acque ghiacciate del lago Baikal vive una popolazione nomade che si sposta, assieme al gregge di renne, glissando su delle piccole casette di legno slittate.

·        L’allevamento al pascolo del Nuovo Mondo. Durante l’epoca precolombiana s’inventarono nuovi sistemi di pascolo, nei quali le mandrie venivano lasciate libere di pascolare. Gli animali erano marchiati e la raccolta delle carni era fatta soltanto due volte l’anno. Successivamente si costruirono dei recinti e si utilizzò il treno per trasportarli. Gli addetti ai lavori si chiamavano Cowboys, Rancheros, Vaqueros, Gauchos.

 

1.3.3. L’allevamento sentimentale

L’allevamento sentimentale è effettuato senza precisi scopi di lucro, ma ha semplicemente natura sentimentale. Si effettua nelle immediate vicinanze delle case e serve per i bisogni degli abitanti della casa stessa. Se un tempo tale tipo d’allevamento aveva come ragione d’esistere il fatto di limitare i costi e talvolta rendere accessibile carne, uova, latte, lana e pelli senza la necessità di acquistarli su mercati lontani, oggi le ragioni si sono spostate sulla qualità, almeno nei paesi sviluppati. Il bisogno di poter disporre di prodotti di qualità, che abbiano il gusto di una volta, spinge gli abitanti delle campagne a dotarsi di un piccolo pollaio e/o un piccolo recinto nel quale far pascolare qualche capo di bestiame.

 

1.3.4. L’allevamento pascolo-stalla

È il sistema d’allevamento prevalente in Europa, con il quale si ritrova l’interdipendenza con la coltivazione delle piante. Esso sorge e si sviluppa là dove le condizioni climatiche invernali non permettono il pascolo annuale e il mantenimento degli animali, i quali durante l’inverno rimangono nella stalla, alimentati con le scorte di foraggio. In questi ultimi anni è arrivato ad avere più peso della coltivazione delle piante. Le aziende agricole a pascolo-stalla si dividono a seconda dell’importanza data alla componente vegetale:

·        Aziende ad indirizzo fito-zootecnico, che vendono sia prodotti vegetali che animali.

·        Azienda ad indirizzo zoo-fitotecnico, che invece trasformano tutta la produzione vegetale in foraggio per gli animali.

 

1.3.5. L’allevamento a stalla

Al livello più alto del suo sviluppo, l’allevamento perde quasi completamente ogni legame con la coltivazione dei campi. La meccanizzazione e i concimi minerali, hanno sostituito il traino e il concime naturale, e hanno reso inutile la stretta interdipendenza che, per lungo tempo, esisteva tra allevamento e coltivazione delle piante. I mangimi, concentrati o voluminosi, si acquistano sul mercato. Spesso le aziende non possiedono neanche i pascoli, ma solo locali al chiuso per gli animali, magari posti vicino alle città per beneficiare della vicinanza del mercato. Tutti però ci ricordiamo le vicende della “mucca pazza” e la febbre aftosa, dovute ad un utilizzo improprio di mangimi d’origine bovino (ossa e carni frantumate) somministrato agli animali. Ci ricordiamo anche dei polli alla diossina. Molto spesso gli animali sono costretti a soggiornare in gabbie piccolissime, senza vedere mai la luce del sole e gli vengono somministrate quantità crescenti di antibiotici. Ciò li rende sempre più deboli ed esposti a malattie sempre più difficili da curare e, in alcuni casi, trasmissibili all’uomo, non ultima quella della febbre dei polli, anche se le ragioni della sua esplosione non sono ancora conosciute.

 

 

 

 


2. CARATTERISTICHE ECONOMICO-SOCIALI E FORME DI PROPRIETÁ DELL’AGRICOLTURA

 

 

Le caratteristiche sociali e le forme di proprietà nell’agricoltura definiscono chi è l’agricoltore e quale sia la sua relazione con la terra sulla quale lavora e con le altre persone che lavorano su di essa. Attraverso questa analisi possiamo di nuovo renderci conto della grande varietà di conduzione della terra che esiste, quanto le consuetudini e successivamente la legge si sono adattate all’agricoltura e quanto l’agricoltura abbia in qualche modo subito l’influenza delle regole e delle leggi.

Il Kostrovicki (1980) ci mostra, ancora una volta, una schematizzazione molto efficace delle caratteristiche economico-sociali delle forme di agricoltura, evidenziandone l’aspetto geografico.

Iniziamo l’analisi dicendo che l’agricoltore non è sempre il proprietario della terra.

2.1. Proprietà comune

 

Nella proprietà comune il diritto di godere e disporre della terra spetta ad un determinato gruppo di persone, una comunità, una tribù o una società. In essa il lavoro e la proprietà spettano a tutta la comunità.

 

2.1.1. Società di raccolta e caccia

Abbiamo già visto che tali società erano possibili soltanto entro certe condizioni demografiche. Si dava per scontato il riunirsi in tribù, in quanto garantiva una maggiore possibilità di sopravvivenza. Basti pensare ai vantaggi per la caccia degli animali selvaggi di una certa stazza o semplicemente alla difesa all’interno del piccolo accampamento. Soltanto armi e attrezzi erano di proprietà personale, ma il resto era naturalmente in comune.

 

2.1.2. Società di pastori

Molto simili alle società di raccolta e caccia, quelle di pastori estendono la proprietà individuale, oltre che ad armi e attrezzi, anche agli animali. In Perù, per esempio, i lama, che pascolano liberamente all’esterno dei villaggi, sono riconoscibili dai vari proprietari grazie ad un piccolo ciuffo di lana colorata con colori diversi per ogni proprietario e cucito sulla punta degli orecchi.

 

2.1.3. Comunità agricole

Con le società agricole, la proprietà individuale si estende alle piante ed ai frutti delle piante di colui che le ha piantate. Si crea un diritto all’uso dei terreni e, in alcuni casi, oggetto d’eredità sono soltanto i beni mobili, mentre la terra dopo la morte ritorna di proprietà della comunità.

Dove la legge di successione trasferisce anche la proprietà della terra, si corre il rischio di una parcellizzazione eccessiva degli appezzamenti. Soltanto la legge sul maggiorascato può limitare la degenerativa polverizzazione delle proprietà.

In Kenya si stabiliscono i confini del territorio che appartengono alla comunità agricola e poi si suddividono successivamente in appezzamenti più piccoli, da assegnare a piccoli gruppi di 20-50 persone. Col crescere della popolazione tali territori vengono ridelimitati e spetta ai sacerdoti e agli anziani tale compito (Chodak, 1963).

 

2.1.4. Ruolo attuale e futuro delle comunità agricole

La “Progress in Land Reform” (ONU, 1954-1976) suddivide i paesi in tre categorie:

·        Paesi dove le comunità agricole non occupano vasti territori. Esse sono scomparse in maggioranza nel XIX sec. (Europa).

·        Paesi dove prevale la proprietà individuale e dove una minoranza della popolazione conduce le comunità agricole (indigeni): America del Sud, India, Asia centro orientale e Oceania.

·        Paesi dove tale condizione è dominante: Africa centrale.

 

In Italia tali comunità si estendevano per tre milioni d’ettari (30.000 km²), pari al 10 % del territorio (Kostrovicki, 1980).

Il massimo vantaggio delle comunità agricole è l’esclusione dalla possibilità di speculare sulla terra e l’esclusione dall’indebitamento, che sono delle vere e proprie piaghe per l’agricoltura individuale. Quindi, sia per motivi sociali sia per motivi economici, si deve tendere alla loro conservazione, fin quando è possibile e, successivamente, trasformarle in aziende cooperative, conservando i lati buoni delle comunità e modernizzando l’organizzazione e la tecnica agricola.

 

2.2. Proprietà individuale

 

Significa che la persona proprietaria della terra possiede tutto il diritto di definire il modo e la portata del suo uso, nonché il diritto di passare a terzi la proprietà di essa (America, Australia, Europa, India e Giappone). La persona, giuridica o fisica, ha il potere di godere e disporre in modo esclusivo del terreno in proprietà.

 

2.2.1. Le grandi proprietà terriere come residuo del feudalesimo

Le origini e le cause che hanno formato le grandi proprietà, sono le più svariate:

·        usurpazione di terre comuni ;

·        conquista militare ;

·        assegnazione ;

·        concentrazione tramite acquisto o costrizione.

 

Gli inizi dello sviluppo della grande poprietà agraria (latifondo) cadono dalla dissoluzione della comunità primitiva. Nell’evoluzione storica si distingue una grande proprietà terriera di tipo schiavista, una grande proprietà di tipo feudale e una grande proprietà individuale a carattere capitalistico.

La grande proprietà schiavista si sviluppo dapprima in stretta relazione con l’agricoltura intensiva. Nella proprietà schiavista il diritto del padrone si estendeva, oltre che alle terre e agli immobili in essa costruiti, anche agli schiavi, dei quali aveva il potere di vita o di morte. Dalle sue rovine e non solo, si sviluppò il feudalesimo dell’Europa, determinando anche la nascita delle classi sociali. Il padrone possedeva la terra e il lavoro dei contadini-sudditi, ma su di loro non aveva più il potere di vita o di morte. La rendita da corvée fu sostituita con quella naturale, con la quale il contadino pagava in natura. Nonostante ciò, il contadino soffriva ugualmente la fame, in quanto le percentuali di prelievo sul raccolto erano sempre troppo alte. Successivamente la rendita naturale fu sostituita con la rendita pecuniaria.

La definitiva rimozione del sistema feudale si ebbe con il capitalismo, secondo due differenti evoluzioni:

·        la via americana, con una completa liquidazione del sistema feudale (USA, Francia, Germania, Inghilterra e Olanda);

·        la via prussiana, con un passaggio più graduale al capitalismo e con la sostituzione delle forme d’agricoltura feudale (Russia, ex-Germania orientale, ma anche Italia, Spagna, Portogallo e America del Sud).

 

Sistemi simili a quello feudale si sono ritrovati in Africa tra gli Zulù, i Basuto, gli Ashanti e gli Haussa-Fulani. I contadini Haussa, per esempio, costituivano una classe di persone formalmente libere, tenute però alla prestazione di numerosi servizi, corvèe, tributi e imposte a favore dei loro signori (Chodak, 1953).

In Vicino Oriente, Asia meridionale e America Latina si è avuta una concentrazione della proprietà nelle mani di poche categorie di grossi proprietari, accompagnata da una contemporanea polverizzazione delle aziende agricole in piccoli possedimenti. Simile il paesaggio in Spagna, Portogallo, Italia meridionale, Europa centrale.

Là dove domina la grande proprietà terriera i proprietari, molto spesso, non si occupano della conduzione dell’azienda, delegando a terzi la gestione. Anche la chiesa (Cattolica, Ebrea o Musulmana) è proprietaria di molte terre.

 

2.2.2. La grande proprietà e l’affitto della terra

Una buona parte della grande proprietà terriera privata è coltivata da piccoli agricoltori-fittavoli, che hanno soltanto la facoltà di godere della terra che essi occupano. Si distinguono tre forme d’affittanza:

·        In cambio di determinati servizi. Questa è la forma più primitiva del rapporto d’affitto ed è molto simile alla rendita da corvée. Una forma ancora presente è l’encomienda dell’America del Sud, con la quale in cambio dell’uso della terra, della difesa e dell’insegnamento della fede, il contadino-fittavolo versa una piccola somma di denaro al padrone. Malgrado ciò, l’encomienda si è trasformata ben presto in un’organizzazione feudale. Altro esempio è dato dall’hacienda, simile all’encomienda, che si è formata grazie all’espropriazione coatta dei territori degli indigeni. Nell’hacienda, in cambio di un piccolo appezzamento di terreno lontano e di bassa qualità, i membri delle comunità (Ayllu) sono costretti a lavorare 3-5 giorni la settimana o tre settimane al mese sulla terra dell’haciendero. Caratteristica comune delle due forme è che i contadini-braccianti o fittavoli-braccianti ricevono, oltre alla terra, anche una casa e dei prestiti ripagabili col lavoro e necessari per comprare gli attrezzi, i vestiti e una parte del cibo (direttamente dall’haciendero). Molto spesso i fittavoli finiscono in un circolo vizioso d’indebitamente dal quale difficilmente riescono a liberarsi e grazie al quale l’haciendero riesce a controllare meglio la sua forza lavoro (Flores, 1955).

·        In cambio di una parte della produzione in natura o in denaro. La mezzadria è l’esempio più conosciuto con la quale il fittavolo è tenuto a fornire al proprietario una quota superiore alla metà dei raccolti. Essa si è diffusa nel Vicino e Medio Oriente, ma si ritrova anche in America del Sud, Stati Uniti ed Europa meridionale, tuttavia le differenze sono enormi. In ogni caso la mezzadria, inizialmente, era calcolata per lasciare al fittavolo il minimo indispensabile per il mantenimento suo e della famiglia. Per esempio in Iran il raccolto si divideva in quinti: un quinto per la terra, un quinto per l’acqua, un quinto per le sementi, un quinto per i buoi e un quinto per il lavoro e spesso al contadino non spettava che quest’ultimo quinto.

·        In cambio di un canone deciso in anticipo. Questa è la forma più vantaggiosa per l’affittuario, anche se uno svantaggio risiede nell’eccessiva rigidità del canone. In alcuni, quando i contratti prevedono lunghi periodi di locazione, gli affittuari provvedono a migliorare le rese del suolo e ad impiantarvi colture di pregio. In alcuni contratti enfiteutici di lunga durata, c’era un vero e proprio impegno da parte dell’agricoltore ad apportare miglioramenti al fondo, che aveva avuto in concessione. La diffusione dell’affittanza in Europa ha avuto una certa logica geografica, tanto che oggi, se ci spostiamo da Est verso Ovest rileviamo un graduale aumento percentuale delle forme d’affittanza. Le densità maggiori si hanno in Gran Bretagna (intorno al 60%), nella Francia nord-occidentale e nella Spagna sud-occidentale (Kostrovicki, 1980).

 

2.2.3. La grande proprietà come grande azienda agricola

Esistono esempi d’aziende agricole basate sulla conduzione e gestione a carico del proprietario. Esse si distinguono secondo i metodi di conduzione impiegati. Talvolta, tali aziende sono gestite da fattori, oppure, come nel caso degli USA, da proprietari (side walk farmers) che abitano in città e si recano in fattoria a lavorare o, ancora, da proprietari (suitcase farmers) che abitano ancora più lontano e si fanno vedere saltuariamente. Un altro esempio è costituito dalle grandi piantagioni dell’America Centrale e Meridionale.

Oggi le grandi proprietà terriere fanno capo a gruppi capitalistici, col vantaggio di poter investire ingenti capitali nella ricerca, che spesso è indirizzata alla genetica, ma con lo svantaggio sociale della conduzione anonima. La coltivazione predominante è la monocoltura (caffè, banane, ananas, soya, mais, ecc.), la quale, molto spesso, determina una rapida usura dei suoli, il che tuttavia non infastidisce molto la proprietà che ha la possibilità di trasferire i propri investimenti verso altri territori. Il risultato lo conosciamo da tempo: impoverimento della terra, talvolta desertificazione, che contribuiscono ad aumentare la dipendenza delle popolazioni autoctone verso le grandi aziende agricole. 

 

2.2.4. La piccola proprietà individuale

Arthur Young (1784) disse: Date ad un uomo una nuda roccia in proprietà e la trasformerà in giardino. Dategli in affitto un giardino e in 10 anni lo trasformerà in deserto. Questa frase ci da un’idea dell’importanza che la diversa conduzione della terra determina sui risultati dell’attività agricola.

 La piccola proprietà individuale ha avuto origine dalla frantumazione delle antiche comunità villaggio o dalla divisione della grande proprietà (riforme agrarie). Oltre che in Europa essa è presente nelle ex-colonie britanniche ed è molto rara negli altri paesi. In America Latina s’incontra più frequentemente nel Brasile meridionale e nell’Argentina settentrionale. Si trova anche in Giappone, dove costituisce la forma di conduzione dominante. La piccola proprietà individuale è poco diffusa nei paesi musulmani e in Africa. Nonostante il progresso tecnico e gli investimenti in R&S delle grandi compagnie agricole, talvolta la conduzione familiare è preferita dai consumatori per l’accuratezza del lavoro e per una serie d’argomenti di carattere sociale, politico e psicologico.

L’ unico vero grande problema della piccola proprietà è legato alla legge di successione che, col passare delle generazioni, crea una polverizzazione delle proprietà. Ci sono dei casi di proprietà sparpagliate sul territorio con una superficie di pochi m², invece, là dove vale ancora la regola del maggiorascato le proprietà hanno mantenuto una grandezza utile. La polverizzazione eccessiva crea infatti una difficoltà sempre maggiore per il contadino che non riesce più ad ottenere una produzione in grado di sostentarlo.

 

2.2.5. La cooperativa agricola

Tale assetto proprietario è stato creato sia per far fronte alle difficoltà della piccola azienda individuale e sia per godere d’alcuni vantaggi delle grandi imprese, prime fra tutte le economie di scala. Inizialmente le prime forme di cooperativa si concentrarono sullo smercio della produzione agricola, successivamente estesero le loro finalità al credito, all’approvvigionamento, alla lavorazione, all’allevamento, alla semina, ecc.

Essa si sviluppò moltissimo nei Paesi scandinavi e, successivamente e in maniera minore, anche in Germania, Francia, Italia e, negli ultimi decenni, nei paesi in via di sviluppo

 

2.2.6. Le riforme agrarie

Con il termine riforma agraria s’intendono tutti i mutamenti dei rapporti agricoli introdotti in modo evolutivo o rivoluzionario, per iniziativa del potere politico e/o d’istituzioni private. Nei prossimi capitoli andremo a vedere da vicino la nuova riforma agraria in Svizzera (par 4.3.).

La forma più semplice di riforma è la trasformazione dell’affittuario in proprietario. Il suo fondamento è la ricerca di un equilibrio tra bisogno di terra da parte della popolazione contadina e le riserve di terra esistenti. La ridefinizione della dimensione delle terre varia da riforma a riforma. In America Latina tutte le riforme si basano sulla funzione sociale della proprietà, come principio cardine per una buona gestione della terra. Secondo questo principio il proprietario ha l’obbligo nei confronti della società di utilizzare la terra secondo metodi e modalità che superino i rapporti sociali feudali. Le terre inutilizzate sono le prime a subire l’espropriazione e, normalmente, si pone un divieto sull’affittanza in cambio di lavoro.

In Italia meridionale nel secolo passato vi fu l’espropriazione dei latifondi storici a favore dei contadini, malgrado che molti di loro si trasferirono al Nord nel sogno di una vita migliore.

Tuttavia, le riforme che sono riuscite ad uscire dalla burocrazia politica divenendo esecutive, non si sono realizzate negli obiettivi che erano stati fissati e talvolta sono state un vero e proprio fallimento (Kostrovicki, 1980).

Parallelamente là dove le proprietà agricole si presenta polverizzata sul territorio, la commassazione dei fondi rustici è una condizione essenziale per la modernizzazione dell’economia agricola dei paesi in via di sviluppo.

Doreen Warriner afferma che la riforma agraria nel mondo contemporaneo ha un’importanza pari alla liquidazione del sistema feudale in Europa nei secoli passati (in Ellis, 1980, pag. 526).

 

2.3. La proprietà sociale

 

La proprietà sociale non significa soltanto proprietà comune, assegnata ad un determinato gruppo o nazione, ma estende il suo senso ad una conduzione di carattere sociale. La terra è coltivata e usata in comune tra i membri del gruppo.

Furono le riforme agrarie socialiste ad introdurre questa forma di proprietà all’alba della Rivoluzione Russa. Inizialmente, tali riforme liquidarono il feudalesimo nelle campagne, espropriarono la grande proprietà feudale o capitalistica e assegnarono le terre espropriate ai contadini, stimolando le forme di cooperazione agricola, con le quali si preparavano le basi dell’economia socialista. Il 1917 segnò l’iniziò del passaggio dall’azienda contadina a quella socializzata. Nel periodo che va dal 1924 al 1934 ci fu la fase della collettivizzazione forzata. Nel 1940 il 99,3 % delle forme di proprietà rientrava nell’ambito dell’economia socializzata (sovchoz e kolchoz) e negli anni a cavallo tra il 1950 e il 1962 tale politica si estese anche ai paesi satelliti del Patto di Varsavia. Poco più tardi riforme radicali e spesso violente, si applicarono in Cina. Anche lì la tendenza fu la medesima, cioè si formarono cooperative agricole di grandi dimensioni.

La storia ci dimostra che, in realtà, tali riforme furono lente nel migliorare la situazione socio-economica e le rese in agricoltura, basti pensare che la Russia prima del 1917 era la più grande esportatrice di grano e oggi è la più grande importatrice (Rydenfelt, 1983). Non dimentichiamoci che da cinque a dieci milioni di Russi morirono di fame a causa di ciò e sarebbero stati il doppio se non fosse stato per gli aiuti internazionali (Smith, 1994).

 

2.4. Le aziende agricole

 

Secondo la definizione della FAO (1965), per azienda agricola s’intende una superficie di terra utilizzata per intero o parzialmente ai fini di produzione agricola, indipendentemente dal diritto esercitato sulla terra, dalla forma giuridica della gestione, dalle sue dimensioni, anche senza terra  (allevamento a stalla, coltivazioni fuori dal terreno, apicoltori). La FAO ha cercato di trovare una definizione che contenesse tutti i casi esistenti, utile per confrontare le diverse realtà presenti sulla terra.

L’azienda agricola con la sua autonoma gestione delle risorse, delle scelte produttive, dell’organizzazione del lavoro e della sistemazione del terreno costituisce dunque il primo e più piccolo elemento geografico capace di esprimere globalmente e sinteticamente la complessa problematicità della realtà agricola di una regione. È per questo motivo che, nell’analisi dello spazio rurale, partire dall’esame dei caratteri strutturali (superficie agricola utile, composizione della forza lavoro), permette di evidenziare fin dalla fase iniziale dell’indagine le difficoltà e gli squilibri presenti nell’area esaminata.

L’ampiezza della superficie aziendale è un dato molto interessante per la descrizione geografica, ma non è sufficiente all’interpretazione della realtà agricola, per la quale dovremmo analizzare anche altri fattori come quello economico e quello fisico (fertilità, pendenza, contaminazione, erosione o desertificazione).

 

2.4.1. I caratteri strutturali delle aziende agricole

Rispetto alle dimensioni, le aziende dell’Africa, dell’Asia orientale e meridionale, sono quelle che in media hanno le più piccole dimensioni, inferiori a cinque ettari per azienda agricola. Anche le aziende agricole dei paesi mediterranei hanno piccole dimensioni, comprese tra cinque ettari e 10 ha per azienda agricola. In Europa Occidentale le superfici sono, in media, comprese tra 10 ha e 50 ha. Si hanno aziende agricole molto estese in America Latina, USA e Canada, comprese tra i 50 ha e i 200 ha. Le massime estensioni si raggiungono in Bolivia, Argentina, Australia e Russia, dove si superano i 200 ha per azienda agricola media (Kostrowicki, 1980).

Partendo dal Giappone, esiste una certa correlazione lineare tra la longitudine e la dimensione delle aziende: se si escludono Russia e Australia, la dimensione delle aziende ha un graduale incremento spostandosi da est verso ovest.

Guardando ancora più da vicino il caso dell’Europa, i paesi si possono ordinare secondo la seguente classifica (Grigg 1966):

·        paesi nei quali prevalgono le piccole aziende: Spagna, Italia, Grecia, paesi dell’ex-Jugoslavia, Polonia e Norvegia;

·        paesi nei quali prevalgono le aziende medio-piccole, comprese tra i cinque e i 50 ha: Austria, Svizzera, Finlandia;

·        paesi nei quali prevalgono aziende di dimensioni superiori a 50 ha: sono i più numerosi.

 

Nel 1950 il 70 % degli agricoltori lavorava in piccole aziende che ricoprivano 1/3 della superficie delle terre coltivate (Kostrovicki, 1980). La seguente tabella mostra la percentuale dei lavoratori salariati rispetto al totale dei lavoratori dell’agricoltura nel 1950:

 

Tabella 2.1. Rapporto tra salariati e lavoratori in agricoltura

PAESI

Belgio

Grecia

Austria e Irlanda

Usa

F, E, I CH, ND

Canada

Portogallo

Gran Bretagna

%

7

8

10 – 20

24

20 – 30

35

61

64

Fonte: Kostrovicki, La Geografia dell’Agricoltura, 1980.

 

In America Latina queste percentuali sono ancora più alte, mentre si mantengono contenute in Africa e Asia.

 

2.4.2. I caratteri economici delle aziende agricole

·        Agricoltura estensiva ed intensiva. Definite in maniera talvolta diversa e non coerente dai diversi autori, le due agricolture si differenziano prima di tutto per la densità colturale e cioè per il rapporto tra superficie coltivata e superficie totale. Abbiamo visto, che tutte quelle pratiche agricole che davano luogo ad un’occupazione incompleta o discontinua dello spazio agricolo o quelle che imponevano periodi di riposo a maggese, erano considerate di tipo estensivo. All’opposto, la continuità delle coltivazioni e del lavoro umano nel tempo e nello spazio definiva l’agricoltura di tipo intensivo. Successivamente, con la diffusione della meccanizzazione, dei pesticidi, dei fertilizzanti e dei moderni strumenti di lavoro e commercializzazione, la differenziazione tra agricoltura estensiva e intensiva si è spostata sul rapporto tra capitale investito e resa. L’agricoltura intensiva è diventata quella con alte spese di gestione e che richiede un’elevata qualificazione professionale. Sono considerate intensive quindi, anche le pratiche agricole delle grandi aziende capitalistiche, che impegnano pochissima manodopera, notevoli capitali d’esercizio (acquisto di macchine, concimi, pesticidi, lavoratori specializzati), anche se ottengono basse rese per ettaro. Tuttavia, anche il rapporto tra investimento e ricavo sta incontrando i suoi limiti nel distinguere agricoltura intensiva e estensiva, visti gli impulsi sempre maggiori ad una “estensivizzazione” dell’agricoltura e viste le politiche agricole ancora a sostegno delle colture facilmente meccanizzabili. Dobbiamo quindi passare ad un nuovo dato, unitamente a quello della densità delle coltivazioni, che è quello dell’intensità delle colture, esprimibile nella Produzione Lorda Vendibile (PLV) media per ettaro di Superficie Agricola Coltivata (SAC) (Grillotti, 1992).

·        Agricoltura sotto l’aspetto commerciale. La qualità delle scelte culturali e la loro combinazione sul territorio o nell’arco dell’anno, esprimono anche il livello d’impegno richiesto all’agricoltore. La policoltura piuttosto che la monocultura e la combinazione delle pratiche culturali con l’allevamento, richiedono un impegno maggiore e si traducono in una valorizzazione e rivitalizzazione del territorio. La policoltura promiscua (cfr. par 1.2.1.) e l’integrazione dell’allevamento con le colture, rispondevano prima di tutto alle esigenze dell’autoconsumo. L’agricoltura moderna, fatta eccezione per alcune regioni dei paesi in via di sviluppo, è invece del tutto svincolata dai bisogni essenziali del coltivatore e risponde alle esigenze del mercato e degli scambi internazionali, arrivando talvolta a condizionare gli scambi e a guidarli. Proprio sotto l’aspetto commerciale s’individuano:    

1.      L’agricoltura di sussistenza. La vera agricoltura di sussistenza, cioè quella monoculturale, è praticata oggi solo da alcune popolazioni isolate della foresta Amazzonica, della Nuova Guinea e dell’Africa nera. Più in generale l’agricoltura di sussistenza comprende tutti i casi nei quali la popolazione rurale spende più dei due terzi delle sue risorse (suolo, lavoro, capitale) per ottenere il necessario per la sopravvivenza. Questa definizione estende questa forma agricola a tutto il continente africano, all’India, alle Filippine, all’Asia sud-orientale e all’Indonesia (Grillotti, 1992). È pur tuttavia un’agricoltura della fame, molto fragile, date le difficoltà di controllo ed utilizzo delle risorse naturali e di conservazione dei prodotti. Diversa, ma rivolta sempre all’autoconsumo, la policoltura promiscua tradizionale dà al contadino una forte autonomia sul piano alimentare. Praticata dai paesi non ancora industrializzati e anche in alcune regioni d’Italia fino al primo dopoguerra, la sua forza sta nella presenza di colture diverse tra loro che, anche in condizioni climatologiche avverse, permettono di ottenere in ogni caso un qualche risultato, oltre che destagionalizzare la produzione.

2.      L’agricoltura di mercato. Il forte dispendio di tempo e forza lavoro richiesto dalla policoltura promiscua (bassa produttività del lavoro) ha spinto l’agricoltura verso la specializzazione colturale e verso forme più razionali di produzione per il mercato. Anche nell’Italia nel dopoguerra si svilupparono forme d’agricoltura rivolte per più del 50% alla commercializzazione. L’agricoltura di mercato si caratterizza proprio per l’esistenza del settore agricolo e del settore commerciale. La parte di produzione destinata all’autoconsumo si riduce mano a mano che l’impresa si apre al commercio. Le colture subiscono una variazione e s’indirizzano verso quelle annuali facilmente riconvertibili. Anche nei paesi socialisti ci si preoccupava della destinazione e dello sbocco dei prodotti (cfr. par 2.3.)

3.      L’agricoltura di speculazione. Già presente nel XIX sec., le aziende che praticano tale forma di agricoltura basano i loro obiettivi sul controllo del mercato (Grillotti, 1992). In un sistema ad agricoltura di speculazione, non è più il mercato ad orientare le scelte produttive, ma la scelta monocolturale, sulla quale sono stati investiti ingenti capitali, a condizionare la domanda e i consumi. Sono aziende dove terra e lavoro hanno costi molto bassi e, paradossalmente, come nell’agricoltura di sussistenza monocolturale, concentrano tutte le risorse su un singolo prodotto, il che le rende molto fragili. Come tutte le monoculture, l’agricoltura di speculazione ha un forte impatto ambientale, favorendo la desertificazione (un po’ come le primitive forme d’agricoltura itinerante). Non sono i fattori fisici a penalizzare l’azienda, che è sempre pronta ad investire in nuovi terreni fertili, ma il rallentamento dei consumi, che la obbliga a delicate operazioni di stoccaggio o di marketing, pena il crollo dei prezzi (Grillotti, 1992).

4.      I sistemi agro-industriali. La caratteristica è la stretta connessione tra agricoltura e industria definite e coordinate nell’ambito di un unico gruppo societario. Si cerca di controllare verticalmente l’intero ciclo di lavorazione. L’industria domina tutto il processo perché fornisce ai coltivatori gli input (sementi, macchinari, fertilizzanti, pesticidi) e assorbe gli output, cioè il raccolto. La produzione, concentrata orizzontalmente, è collocabile sul mercato anche grazie alla concertazione di numerosi settori: trasporti, commerciale, editoriale, pubblicitario, riuniti nello stesso gruppo. Anche il sistema agro-industriale si basa sulla monocoltura, che viene, tuttavia, diversificata sul territorio. La terra che sfruttano, a differenza dell’agricoltura di speculazione, diventa un bene da conservare (Grillotti, 1992)

 

Per ultimo è interessante precisare che le aziende a conduzione e proprietà familiare sono quelle che hanno la produttività della terra più alta, cioè, in altri termini, sono in grado di sfruttare in maniera più redditizia e di ottenere risultati migliori dalla medesima superficie di terreno. Tuttavia sono le grandi piantagioni, guidate da multinazionali, ad ottenere la migliore produttività del lavoro, anche grazie alla pressione economica e politica esercitata sui governi e alle comunità locali.


3. TRANSIZIONE DALL’AGRICOLTURA TRADIZIONALE A QUELLA MODERNA. L’IMPATTO SULL’AMBIENTE

 

3.1. Agricoltura tradizionale e moderna

 

3.1.1. L’aiuto della geografia

In questi primi due capitoli abbiamo analizzato come si è evoluta l’agricoltura, almeno fino agli anni ’70. Fatta esclusione per l’ultimo paragrafo (2.4.), molte fonti e riferimenti sono precedenti agli anni ’70, per rendere evidenti le forme d’agricoltura tradizionale presenti all’epoca, visto che poi esse hanno cominciato a perdere quel carattere territoriale espresso in precedenza. A quel tempo a mio avviso, le forme di agricoltura tradizionale, hanno raggiunto una completezza quantitativa massima. Talvolta le considerazioni di questi capitoli si riferiscono a dati del 1950. Inoltre, la scelta di riferimenti geografici evidenzia l’evoluzione dell’agricoltura tradizionale nei suoi molteplici aspetti.

L’ausilio della geografia, nell’analisi dell’agricoltura, è stato molto utile per mettere in evidenza la complessità e la territorialità delle differenti forme di agricoltura tradizionale, e la completezza del “sistema agricolo tradizionale mondiale”. Un’analisi in equilibrio tra una geografia determinista e possibilista, proprio perché l’agricoltura rappresenta il punto d’incontro, nel tempo e nello spazio, tra uomo e natura; in particolare l’agricoltura tradizionale. Un rapporto, quello tra uomo e natura, né causale, né casuale, ma interdipendente e coerente con le scelte che quel gruppo umano ha operato in quel determinato frangente spazio-temporale.

Con la geografia determinista tali scelte sono state predefinite dalla natura, per l’agricoltura tradizionale (determinismo ambientalista) o dall’economia, per l’agricoltura moderna (determinismo funzionalista).

Con la geografia possibilista, invece, si considerano le scelte dell’uomo, non come predefinite, ma coerenti con la realtà storica, realtà che per l’agricoltura tradizionale si limitava agli aspetti naturali, ambientali e culturali, ma che per l’agricoltura moderna si è arricchita degli aspetti economici, tecnologici, politici ed etici.

Dunque, l’agricoltura si è evoluta in equilibrio tra possibilismo e determinismo. Ancora all’inizio del XX secolo l’attività agricola era pesantemente condizionata dai caratteri dell’ambiente naturale, quindi la geografia si limitava ad individuare limiti e potenzialità delle colture e delle componenti fisiche del territorio. Nella seconda metà del XX secolo lo sviluppo dell’agricoltura moderna, ha ridotto i vincoli ed i condizionamenti naturali, permettendo di coltivare al di là delle condizioni morfologiche, climatiche e della stessa disponibilità di suolo agricolo (Grillotti, 1992).

Si parlò allora di “rivoluzione verde” e l’uomo in quel momento credeva veramente di poter estendere il suo dominio agricolo sull’intero pianeta, superando ogni carenza o problema di carattere alimentare. A tal fine sembrò più opportuno concentrare l’analisi e le decisioni sui settori secondario e terziario (chimica di sintesi, commercializzazione, meccanica, biologia, ecc.), piuttosto che sugli esiti che tali interventi provocavano sulle campagne; dall’ambiente naturale l’attenzione si è spostata agli strumenti tecnologici, scientifici ed economici.

 

3.1.2. Tradizione, diversificazione e territorialità.

Sin dalla notte dei tempi le forme d’agricoltura non hanno cessato di differenziarsi, d’intrecciarsi, d’interagire, di specializzarsi, di evolversi ed è nel secolo scorso che si è avuta la massima estensione delle forme d’agricoltura tradizionale.

Riprendendo l’ipotesi posta nel paragrafo 1.1., avevamo scelto il rombo come forma geometrica che meglio rappresenta graficamente l’evoluzione dell’agricoltura da un punto di vista tecnico-organizzativo. Alle origini l’agricoltura contava poche forme distintive (vertice del rombo), poi nel tempo, esse si sono moltiplicate e siamo arrivati nel secolo scorso alla massima estensione (segmento di massima estensione del rombo), successivamente secondo il Kostrovicki (1980) le forme agricole sono destinate a ridursi a poche forme realmente distintive. In realtà vorrei fare una precisazione e cioè che questo è vero per le forme di agricoltura tradizionale, ma non per le forme di agricoltura in generale (v. sotto).

L’agricoltura tradizionale è il risultato d’innumerevoli aggiustamenti da parte dell’uomo, nel tentativo di trovare la forma d’agricoltura più consona (cfr cap 1) ad un determinato tipo di società e di ambiente (oltre che il rapporto giuridico migliore per ogni caso concreto, cfr cap 2). Ma se è vero che adesso siamo nella fase regressiva del rombo, cioè in una fase nella quale le forme d’agricoltura tradizionale si stanno riducendo di numero, non è altrettanto vero che l’agricoltura stia riducendo la sua varietà. Si riducono le forme d’agricoltura tradizionale, ma non le forme d’agricoltura.

La novità di questi ultimi anni è che la diversità agricola sta avanzando su un piano diverso. Se prima la diversità agricola si evidenziava in scala locale, nella quale ogni forma tradizionale rispondeva a quel principio di territorialità espresso in precedenza (cfr. par. 1.1.), oggi e sempre di più la diversità si esprime su un piano globale, giacché le forme d’agricoltura tradizionale hanno perso una buona parte della spinta evolutiva che avevano fino agli anni 50. È un gioco di scala nel quale globale e locale interagiscono tra loro diversificando ulteriormente le forme di agricoltura. Immaginiamoci una matrice dove s’intrecciano da una parte le varie forme d’agricoltura tradizionale e dall’altra le nuove forme d’agricoltura moderna. Modernità e tradizione, in agricoltura, s’intrecciano ulteriormente, talvolta si scontrano, ma sicuramente creano i presupposti per una sinergia tra passato e futuro.

 La tradizione è un qualcosa che procede in maniera autonoma, attraverso la quotidianità, dove conoscenza e pratica sono un tutt’uno. Attraverso la trasmissione, molto spesso orale o semplicemente dell’esempio pratico, la tradizione si affina e si trasferisce nel tempo, di generazione in generazione. È un delicato equilibrio, attraverso la quotidianità, fatto di prove ripetute, errori, fallimenti e di successi che nel tempo perfezionano la tradizione. La tradizione, in particolare la tradizione agricola, diviene il vettore temporale per la trasmissione d’esperienze memorizzate e accumulate, con l’obiettivo di accumulare sempre maggiori garanzie di sopravvivenza, attraverso la conoscenza e la pratica. Nel suolo agricolo interagiscono tre logiche diverse (v. Introduzione): biologica, ecologica e antropologica, cosicché la tradizione è il messaggero nel tempo dell’incontro di queste tre dimensioni. Talvolta, bastava un cambiamento climatico (mutamento ecologico) per rendere una determinata forma d’agricoltura tradizionale inefficace; la pratica, fino allora coronata di successo, poteva entrare in crisi. Oppure un cambiamento politico (mutamento antropologico) metteva fuori gioco altre forme d’agricoltura, si pensi all’enclosures per il sistema infield-outfield. La quotidianità diveniva tragica perché gli usi e le tradizioni non davano più i risultati sperati, fino allora, dati per scontati. I cambiamenti repentini di quell’equilibrio descritto poco sopra (biologico, ecologico e antropologico), obbligavano la tradizione agricola ad un violento adattamento, che avveniva spesso nel lungo periodo, o ad una vera è propria rottura con il passato. La tradizione difficilmente e con molta rigidità si adatta all’imprevisto, proprio a causa della territorialità che la lega così fortemente ad un ben determinato territorio, limitando al minimo gli scambi extra-territoriali (Raffestin, Bresso, 1982).

Con l’avvento dell’agricoltura moderna si è avuta una de-territorializzazione delle forme d’agricoltura. In maniera generale, essa è adattabile a qualsiasi territorio e s’inserisce nell’equilibrio ecologico, biologico e antropologico non più (e non solo) tramite il rigoroso rispetto delle tradizioni, ma (anche) secondo logiche legate al futuro e non più al passato. La modernità vede la definitiva scissione della pratica dalla conoscenza. Sempre più spesso l’evoluzione dell’agricoltura avviene nei laboratori o nelle università, mentre la pratica rimane nelle mani dei contadini. Si cercano delle teorie applicabili al maggior numero possibile di casi concreti e di territori agricoli, teorie il più possibile standardizzabili e meccanizzabili, il più possibile vendibili e accessibili al numero più elevato di coltivatori. Le forme agricole moderne sono libere dalla territorialità e per questo più flessibili.

La deterritorializzazione tiene conto dello spazio in maniera conforme alle leggi dell’economia. L’apertura crescente dell’agricoltura ai mercati, iniziata in Europa centro-settentrionale già dal XIX sec, riorganizza il territorio agricolo in relazione della vicininanza del centro urbano (mercato di sbocco). Già nel 1826 von Thünen (Tinacci, 1990) individuò un modello, con il quale evidenziò che le coltivazioni si disponevano in cerchi concentrici distanziati dal mercato centrale in ragione delle tecniche di produzione e della composizione della domanda. Questo modello, applicabile ad ogni territorio, ci da un idea di quanto le dinamiche economiche deterritorializzino un sistema agricolo tradizionale.

 

3.1.3. Modernità, omologazione e de-territorializzazione.

La modernità segna la definitiva divisione tra conoscenza e pratica (Raffestin, Bresso, 1983). Con l’avvento dell’agricoltura moderna, la conoscenza esce dai campi coltivati ed entra nei laboratori, omologandosi e deterritorializzandosi. In quale epoca situare questo cambiamento? Difficile dirlo con certezza, poiché le variabili non sono soltanto temporali, ma anche spaziali. In alcuni paesi la scissione tra conoscenza e pratica si è avuta subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. La rivoluzione verde vide la nascita dell’agricoltura moderna. Quel periodo segnò l’inizio della meccanizzazione e del consumo di massa di pesticidi e di concimi chimici, oltre che l’aumento della produttività. Nuove discipline, fino allora estranee all’agricoltura, cominciarono a fornire preziosi aiuti alla conoscenza agricola. La chimica, la biologia, l’agronomia, l’economia s’inserirono nel processo di produzione agricolo in maniera sistematica, sostituendosi al ruolo attivo svolto fino allora dalla tradizione.

Se la conoscenza agricola in buona parte del mondo, si è dissociata dalle tradizioni, l’agricoltura mantiene nella pratica talvolta degli usi antichi di secoli. In altri termini la conoscenza non ha più bisogno d’essere territorializzata, perché molto spesso risponde a dei modelli matematici valevoli per tutti gli ambienti, tuttavia la pratica mantiene ancora vivo il suo rapporto con un determinato territorio a causa della complessità del sistema.

Per essere più chiaro, è indubbio che per la sintesi di un pesticida o per la riproduzione d’insetti predatori, non serve né riferirsi a quel determinato ambiente né riferirsi alle tradizioni, mentre per praticare quel determinato tipo di sovescio o scegliere la data migliore per la semina potrebbe risultare molto utile riferirsi alle tradizioni, alla territorialità o al calendario lunare.

La tradizione non è il contrario della modernità, ma è semplicemente una tappa per arrivare a quest’ultima, attraverso la scissione che abbiamo visto poco sopra. Per aiutarci a capire, potremo vedere la differenza tra due casi estremi:

·        Agricoltura tradizionale pura. Che ha una produttività del lavoro bassa (pensiamo per esempio alle forme di agricoltura discontinua a maggese), un impatto sull’ambiente relativamente modesto e una stabilità nel tempo maggiore.

·        Agricoltura moderna pura. Nella quale la produttività del lavoro è elevata, ma (pensiamo alle grandi piantagioni ad agricoltura intensiva e di mercato) la stabilità nel tempo è ridotta e ci sarà un elevato impatto ambientale.

Per questo, in agricoltura, modernità e tradizione sono in un rapporto di complementarità, talvolta sinergico. I risultati migliori da un punto di vista di efficienza sociale (cfr. par 4.4.2.) si hanno dove l’agricoltura moderna si è inserita in maniera complementare all’agricoltura tradizionale; è il caso dell’agricoltura biologica, nella quale la modernità (conoscenza) si sposa con le tradizioni (pratica).

 

3.1.4. Interazione tra modernità e tradizione in agricoltura: il caso Italiano

Considerando l’agricoltura convenzionale, si assiste molto spesso ad un’invasione, con relativa estinzione delle forme d’agricoltura tradizionale, come nel caso delle grandi piantagioni di proprietà di società di capitali, che s’inseriscono nel territorio in maniera talvolta prepotente, con un’agricoltura di speculazione. Generalmente si adopera un’agricoltura standardizzata che non tiene praticamente conto delle condizioni locali, della territorialità. In alcuni casi tuttavia, là dove le tradizioni sono forti e dove generalmente è presente la piccola proprietà individuale o cooperativa, l’agricoltura convenzionale non ha fatto che diversificare maggiormente l’agricoltura. Tale diversificazione è avvenuta in misura del diverso utilizzo della modernità. Modernità espressa in termini d’utilizzo di pesticidi, concimi chimici, macchinari, cosicché ci sono state una serie abbastanza completa di sfumature tra agricoltura tradizionale e agricoltura moderna. Se prendiamo il caso dell’Italia, notiamo delle zone dove, salvo un’utilizzazione maggiore di macchinari, l’agricoltura tradizionale ha mantenuto la sua integrità. Il caso dell’Italia è emblematico, a causa della sua struttura socio-economica, e ci permetterà di illustrare alcune combinazioni fra tradizione e modernità. Il processo di sviluppo che ha conosciuto l’Italia, molto rapido in certe regioni e relativamente lento in altre, ha determinato la compenetrazione e la diversificazione tra agricoltura tradizionale e moderna. L’importanza dei rilievi montuosi dell’Arco Alpino e l’asprezza di quelli Appenninici si erano piegate dinanzi alla tenace insistenza dei coltivatori, attraverso terrazzamenti, bonifiche e opere idrauliche. Nel passato la superficie coltivabile è stata allargata grazie alla fame di terra e grazie al latifondismo storico (Grillotti, 2000).

Il brillante sviluppo del settore industriale negli anni Settanta ha messo in ombra la solida tradizione agricola ancora oggi impressa nelle forme del paesaggio rurale.

L’articolazione regionale dei sistemi agricoli italiani esprime i contrasti che oggi vive il nostro paese nel settore primario. Col passare del tempo questa dicotomia ha creato una serie ben completa di sfumature tra un’agricoltura competitiva, che punta sulla quantità e l’altra elitaria, impegnata nel recupero di modelli e prodotti tradizionali di qualità. Questa dicotomia prende come rispettivi modelli di riferimento quello nord-atlantico e quello mediterraneo (Grillotti, 2000):

·        il primo, più forte (ma anche più fragile), fonda sull’aumento della produzione e sulla massimizzazione dei profitti le scelte colturali e produttive, come pure il rapporto con gli altri settori produttivi (commerciale e industriale).

·        Il secondo, minoritario (ma ben radicato) include la componente estetica, ludica ed ecologica dell’agricoltura della quale scopre anche nuove funzioni (turismo, salvaguardia dell’ambiente e salute).

Dunque le trasformazioni dei sistemi agricoli italiani negli ultimi decenni sono il risultato di tendenze evolutive contrapposte. Negli spazi agricoli ad elevata densità colturale si possono trovare contemporaneamente due tipi estremi d’agricoltura, quella intensiva (arboricoltura e orticoltura specializzate), praticata in genere dalle aziende medio-piccole e quella estensiva, generalmente adottata dalle imprese di più grandi dimensioni. La presenza della grande o della piccola azienda non costituisce un indicatore esaustivo di produttività o di sviluppo agricolo. Per esempio l’adozione d’ordinamenti colturali intensivi non è maggioritaria nella fascia centrale della Pianura Padana, tra Lombardia ed Emilia Romagna. Mentre l’intensità delle coltivazioni (PLV/SAC, cfr. par 2.4.2.) nelle province italiane sottolinea quanto essa si elevi nelle province in cui è più ridotta la disponibilità di terra coltivabile, tanto da essere stata suddivisa in aziende di dimensioni medio-piccole (Imperia, Genova, Bolzano, Trieste, Pistoia e Napoli) e daidentificarsi spesso con l’orticoltura, la floricoltura, il vivaismo e l’arboricoltura specializzata (Grillotti, 2000).

Nonostante l’aumento del numero e della dimensione delle grandi aziende, si assiste ad un sensibile indebolimento dell’intensità produttiva, a causa della scelta di pratiche monocolturali annuali. Dall’altro lato l’accentuarsi della già elevata intensità colturale da parte d’aziende medio-piccole, anche in presenza di elevate densità demografiche, abitative e colturali (Napoli), sottolinea le contraddizioni e allo stesso tempo le infinite sfumature della realtà agricola italiana. Sfumature o contraddizioni che nascono da una dicotomia storica, originaria, che si trasmette anche all’agricoltura (tradizionale e moderna). Da una parte sta la tendenza alla valorizzazione e al rafforzamento di storiche attività colturali di pregio e qualità (viticoltura, olivicoltura, ecc.) e dall’altra il confronto col mercato internazionale o la tendenza verso uno sfruttamento agricolo di tipo nord-atlantico, che abbatte costi d’esercizio e affronta la competitività commerciale sul piano quantitativo. L’Italia agricola sembra proprio il teatro di una diversificazione dalle infinte combinazioni di questi due modelli, nei quali quantità e qualità, regionale e internazionale, valorizzazione territoriale e produzione competitiva interagiscono tra loro, partecipando a rendere ancora più solida e complessa la nostra realtà (Grillotti, 2000).

Si potrebbe ancora scrivere a lungo sulla tradizione e sulla modernità, ma mille parole non potrebbero mai eguagliare la degustazione di uno dei nostri vini, nei quali il tempo si sposa con l’ambiente e la cultura, nei quali tradizione e modernità si sposano in una sinergia di aromi e profumi che allietano le altrettanto prelibate vivande.

3.2. Agricoltura e ambiente culturale

 

L’agricoltura si è sviluppata e si è evoluta seguendo e interagendo con la realtà umana, in un rapporto di stretta collaborazione: dai tempi della raccolta, nei quali l’uomo provvedeva ai suoi bisogni alimentari sfruttando direttamente ciò che la natura produceva spontaneamente, fino alla scoperta dell’agricoltura, con la quale l’uomo riuscì a capitalizzare una ricchezza attraverso la tecnica e la filosofia agricola. Tale ricchezza è chiamata anche “surplus agricolo”. L’uomo scoprì che facendo interagire il proprio lavoro, quello degli animali e quello della natura otteneva un risultato che, oltre a sfamare lui e gli animali, gli forniva un’eccedenza. Un’eccedenza che poi imparò a vendere e a commercializzare.

La scoperta dell’agricoltura fu un passo fondamentale della vita dell’uomo sulla terra, una scoperta inevitabile, ma necessaria a compiere quel salto di qualità che gli permise di non essere più simile ed un animale che si ciba di caccia e raccolta; gli permise di intraprendere la strada per diventare essere umano. 

La scoperta dell’agricoltura, infatti, portò con sé un aumento demografico importante, oltre che il passaggio dal nomadismo alla sedentarietà. Con questa rivoluzione cambiarono le abitudini, si formarono i primi villaggi e soprattutto, si fu costretti a porre attenzione al tempo, a calcolarlo, a misurarlo. La scoperta dell’agricoltura, inoltre, influenzò notevolmente la religione[3]. Da un punto di vista culturale si assistette all’introduzione di un elemento nuovo come la sessualità e ad un aumento d’importanza crescente di elementi come la fecondità, la fertilità, i miti legati alla comparsa d’ogni cereale e i rituali (magici, culturali e religiosi) necessari per avere un raccolto propizio.

Alla rivoluzione agricola seguì un inarrestabile processo di diversificazione delle forme d’agricoltura (cfr. cap 1.). Ogni popolo, nel tempo, ha adattato la propria filosofia agricola in ragione del clima, del terreno della regione che abitava e della cultura che aveva. Erich Otremba, un geografo dell'agricoltura, affermava che “non è possibile considerare il paesaggio agricolo separatamente dal paesaggio culturale” (in Kostrowicki, 1980). Con la dovuta cautela, aggiungerei, che considerare il paesaggio agricolo (saperlo leggere e interpretare) aiuterebbe a conoscere meglio il paesaggio culturale ed economico e potrebbe essere un’ulteriore chiave di lettura per capire la società d’oggi.

Se diamo un’occhiata alle diverse impostazioni che l’agricoltura ha assunto nel mondo, vediamo che ci sono dei punti nel Pianeta, nei quali l’assetto sociale e l’equilibrio ecologico sono precari o altre zone nelle quali il surplus agricolo è più che annullato dalle esternalità negative e nelle quali le conseguenze di tale perdita di equilibrio si fanno sentire anche nei territori confinanti, talvolta nell’intera antroposfera. Ma ci sono altri territori nei quali tale equilibrio si è mantenuto e si sta mantenendo, non soltanto per un fatto di tradizione, ma anche per un fatto di equilibri e di armonia di quel triplice rapporto (cfr. introduzione e par. 3.1.2.) tra tre differenti logiche: biologica, ecologica e antropologica.

 

3.2.1. Un’ipotesi intrigante

Per quanto mi riguarda ho notato una certa simmetria con la musica,ogni popolo ha la sua musica, cosi come ogni popolo ha la sua agricoltura”. Potrebbe sembrare una frase un po' azzardata, magari senza senso e soprattutto che non ci porta lontano, ma cercherò di spiegarmi.

La musica caratterizza ogni popolo, essa è il risultato di un perfezionamento avvenuto nel tempo, che in un attimo ci consente di “ascoltare la territorialità” di ogni musica tradizionale, vivere quella determinata cultura. In essa c’è l’incontro della componente umana con quella territoriale. Gli strumenti musicali utilizzati sono spesso legati ad una ben determinata regione e quindi territorializzati.

Con la deterritorializzazione della musica, pensiamo ai canti nei campi di lavoro degli schiavi d’America, la componente umana, costituita dalle tradizioni ritmiche degli schiavi che venivano dall’Africa e la componente ambientale, costituita dall’incontro con altre culture (deterritorializzazione), dette vita al Blues oppure al Jazz, nato dall’incontro della componente ritmica dell’Africa con quella armonica europea.

La deterritorializzazione è avvenuta all’interno della componente armonica europea, in quanto nella musica occidentale per far tornare le armonie di differenti tonalità, si sono dovute “temperare” le note, in pratica abbiamo aggiustato matematicamente gli intervalli nelle scale, cosi da poter creare tutta una serie di combinazioni che poi hanno sviluppato la musica occidentale che conosciamo. Quelli che erano degli intervalli naturali con precisi rapporti di frequenza, sono stati alterati (se pur minimamente) per permettere un rigore logico perfetto tra le varie 12 tonalità. Le musiche tradizionali del resto del mondo invece, sono rimaste su scale naturali, impossibili da suonare con strumenti temperati, salvo un’alterazione delle armonie.

Con il temperamento della scala si è involontariamente trovato un linguaggio comune a tutte le diverse musiche presenti sulla terra, un linguaggio parziale ma comune, in grado di “leggere” le differenti culture. Il pianoforte non sarebbe mai potuto essere inventato se non fosse stato per la scala temperata, cosiccome il sintetizzatore. Le ragioni del temperamento sono due :

 

Successivamente ci fu la diffusione degli strumenti temperati (pianoforte, chitarra moderna, sax) e quindi anche di quelli sintetici, che hanno in parte sostituito gli strumenti tradizionali.

In agricoltura è avvenuto un processo similare: quando l’agricoltura moderna è entrata sulla scena, si è avuto un “linguaggio agricolo” comune, un linguaggio talvolta dai toni arroganti e imperialisti, come è il caso di certe musiche lanciate per il solo scopo commerciale, ma potenzialmente capace d’interpretare le diverse realtà presenti sulla terra, di misurarle, di globalizzarle e d’inglobarle.

Questo non è un processo contro l'agricoltura convenzionale, ma semplicemente un tentativo di capirla alla luce della cultura nella quale si è diffusa. Con la scala temperata in musica c’è stata una deterritorializzazione della musica tradizionale. Se prestassimo un po’ più d’attenzione nell’ascoltare la musica etnica o tradizionale, noteremmo che talvolta essa viene suonata con strumenti sintetici (sintetizzatori, ascillatori e filtri), sono rari i pezzi commerciali di musica tradizionale nei quali non si trovano i sintetizzatori. Questa è una semplice constatazione per avere un’idea di quello che sintetico e modernità rappresentano in musica. Anche in agricoltura sintetico e modernità hanno rivoluzionato i modelli tradizionali.

Nell’agricoltura moderna, attraverso una semplificazione della percezione della realtà, si è cercato di trovare un modello su cui poter massimizzare la produzione e aumentare il benessere. Si è trovato un modello il più standard e uniforme possibile che potesse permettere la massimizzazione della produzione e del benessere. In agricoltura, la scoperta e l'utilizzo dei prodotti sintetici e dei macchinari più svariati generò un notevole amunento di benessere, analogamente in musica, il temperamento degli intervalli nelle scale ha permesso un’esplosione di nuove e favolose melodie e possibilità armoniche fino allora impossibili da realizzare (Rock, Folk, Soul, Funk, Rap, ecc...) e la possiblità di registrazione dei suoni favorendone l’ascolto (potenzialmente) per le generazioni presenti e future.

Tali aumenti di benessere di notevole entità inizialmente, si sono ridotti col tempo, soprattutto alla luce del fatto che l'agricoltura influisce notevolmente con l'ambiente. Mi chiedo se anche per la musica sia avvenuto la stessa cosa!

 

3.3. Agricoltura e ambiente fisico

 

3.3.1. I prodotti sintetici

Niente può essere più comune dei prodotti sintetici. Essi hanno trasformato così radicalmente il nostro paesaggio domestico e urbano che non ci rendiamo più conto della loro presenza. Ogni cosa che ci circonda, del nostro mondo costruito, ha a che fare con dei prodotti sintetici: i film che vediamo al cinema o la musica che ascoltiamo sono registrati con l’uso di materiali sintetici, la porta del nostro bagno sarà ricoperta da solventi e vernici sintetiche, la maglietta che indossate, se anche non fosse di poliestere, sarà fatta di cotone trattato con pesticidi e anche la rivoluzione informatica, quindi anche Internet, è stata preceduta da una rivoluzione nella produzione chimica di sintesi, senza parlare dei farmaci e dei materiali medici.

La scoperta della tecnologia della chimica di sintesi ha origine nella metà del 19° secolo, con la creazione dei primi prodotti organici di sintesi come anestetizzanti e disinfettanti (un prodotto organico è un prodotto che contiene nella sua composizione chimica del carbonio). Il DDT, il più famoso pesticida del mondo, fu sintetizzato per la prima volta nel 1874 da un chimico tedesco, ma non venne impiegato fino al 1939. La prima materia plastica fu sintetizzata dalla cellulosa negli anni 90 del 19° secolo (Mc Ginn, 2000) . Ma la vera rivoluzione avvenne nel 1900, quando si cominciò ad usare come materia prima il petrolio, che commercialmente sostituì la canapa indiana (più ecologica), che divenne illegale. Il petrolio consentiva la sintesi di prodotti chimici a prezzi più economici dei prodotti tradizionali, come legno, gomma, metalli, vetro e fibre vegetali. Il vinile da un punto di vista commerciale sostituì la gomma naturale.

Nonostante il suo straordinario successo, il settore della chimica di sintesi è sempre stato un’industria misteriosa, che se da un lato è stata utile all’uomo dall’altro ha creato non pochi disastri: prima si produce, poi ci si chiede quale sia l’impatto sulla natura, quindi sull’uomo.

Nel 2001, un trattato elenca i 12 prodotti di sintesi più pericolosi al mondo; nove di essi sono pesticidi e erbicidi: il DDT, l’aldrin, il mirex, l’endrin, il dieldrin, l’heptachlor, il chlordane, l'hexacloro-benzene, il texaphene. Chiamati anche POP (persistent organic pollutants), alcuni di essi sono già stati banditi da alcuni paesi, ma l’UNEP (Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite) si è proposta di eliminarli in tutti i paesi. Altri studi stimano che in realtà i POP sarebbero centinaia e anche migliaia. La definizione del termine POP (non troppo diversa dalla musica POP, anch’essa presente un po’ in tutto il mondo, cfr. 3.2.) è la seguente:

 

3.3.2. I pesticidi

Nel 1935 (prima della rivoluzione verde), prima che l’agricoltura fosse sconvolta dalla seconda guerra mondiale, la produzione cerealicola era di 650 milioni di tonnellate, alcune stime ci dicono che sarebbe stata circa 30 % più elevata se non fosse stato per le malattie, gli insetti infestanti, i parassiti, le erbacce, i roditori, gli uccelli, ecc…Oggi nel mondo sono usati 2,5 milioni di tonnellate di pesticidi l’anno (Mc Ginn, 2000), il che ci fa pensare che l’agricoltura moderna, quella convenzionale sia semplicemente “drogata”.

Nel 1939, il chimico Svizzero Paul Müller, scoprì che il diclorodifenil-tricloroetano, in arte DDT, poteva essere utilizzato in agricoltura come pesticida. Vinse il premio Nobel per la sua scoperta nel 1948. Durante la guerra, il DDT fu usato per combattere i pidocchi, successivamente divenne il più usato pesticida in Europa, in America settentrionale e successivamente nel resto del mondo. Culturalmente fu un cambiamento importante poichè l’uomo pensò di essere diventato in grado risolvere i suoi problemi con i parassiti, che fin dalla notte dei tempi lo infestavano e non solo in agricoltura!

Il DDT fu seguito da altri pesticidi della stessa famiglia (Mc Ginn, 2000):

 

Nel 2001, un trattato dell’UNEP (programma per l’ambiente dell’ONU), conosciuto ufficialmente come: “The International Legally Binding Instrument for Implementing International Action on Certain Persistent Organic Pollutant”, individua 12 POP tra i quali nove sono proprio i pesticidi trattati qui sopra. Gli altri tre sono i PCBs, la diossina (presente tuttavia in alcuni polli), e i furani. Questi nove sono l’essenza dei POP, estremamente persistenti, bioaccumulabili, mobili e altamente tossici. Tutti vietati ufficialmente in almeno 60 paesi, tranne il DDT ancora usato per disinfestare le zanzare della malaria, ma vietato in agricoltura.

Nonostante ciò, essi fanno ancora parte del nostro mondo (circa sette milioni di tonnellate per sei di loro) e ne fanno parte in modo globale, visto che ce n’è traccia nella corteccia degli alberi di un po’ tutto il mondo (DDT, chlordane e dieldrin), oltre che nell’uomo. Il DDT rimane uno dei più comuni pesticidi che si trovano nel latte materno.

Fino al 1962, l’opinione pubblica andava nella stessa direzione dell’interesse economico delle industrie chimiche e di quelle alimentari, si pensava che il nemico fosse la natura stessa, con i suoi numerosi infestatori ed era logico combattere tutti gli animali che limitavano e parassitavano il raccolto con qualsiasi arma. Nel 1962, un famoso libro, Silent Spring  (CARSON, 1962), svela l’altra faccia della medaglia: “Gli interessi della produzione alimentare sono da bilanciare con altri interessi come la salute, l’acqua potabile e le possibilità ricreative”. Un libro rappresentativo che denuncia gli orrori commessi dai composti chimici utilizzati in agricoltura. Esso diventa un punto di riferimento per molte persone che cominciano a rendersi conto degli effetti collaterali e indesiderati di queste sostanze.

Le industrie chimiche si sforzarono di cambiare rotta, inventando nuovi prodotti meno tossici; in pratica però, esse ripresentarono dei prodotti simili con l’aggiunta d’elementi di zolfo o fosforo, il che in sostanza cambiò il pelo, ma non il vizio dei pesticidi. Il Methosychlor e il dicofol sono molto simili al DDT, alcuni organofosfati sfuggiti all’utilizzo durante la guerra come armi chimiche vennero riciclati come pesticidi: chlorpyrifos, diazinol, malathion e il parathion. Essi non sono classificati come POP, in quanto non molto persistenti, ma tendono ad essere acutamente tossici. I contadini esposti a queste sostanze possono sviluppare seri problemi neurologici (Global Pesticide Campaign, 1999). Gli organofosfati hanno avuto un enorme successo economico: negli USA essi rappresentano circa la metà di tutti gli insetticidi usati. Questo dato si può riscontrare anche nella frutta e nella verdura in vendita nei supermercati (USA), che spesso eccede il limite di sicurezza indicato dall’EPA (agenzia per la protezione dell’ambiente in USA) per i bambini (Kaplan, Morris, 2000). In Giugno 2000, l’Accademia Nazionale delle Scienze stimava che il 25 % dei problemi dello sviluppo e del comportamento dell’infanzia negli Stati Uniti fosse causato dalla combinazione di fattori genetici e dall’esposizione a sostanze chimiche, neurotossiche, inclusi il piombo, i PCB e gli organofosfati (Groth, Benbrook, Lutz Karen, 1998).

In risposta a ciò, l’EPA sta riesaminando diverse decine di organofosfati sul mercato e in luglio 2000 l’agenzia ha annunciato il piano di eliminazione di alcuni di essi, tra cui il famoso chlorpyrofos, un ingrediente attivo nel Dursban (provate a cliccarlo su Internet su qualche motore di ricerca!). Anche in altri paesi come Gran Bretagna, Argentina, Indonesia e Filippine sono stati banditi dal mercato diversi organofosfati.

Tuttavia circa 600 diversi prodotti chimici sono usati come ingredienti attivi nei pesticidi e il mercato di questi ingredienti attivi è passato da 60.000 tonnellate nel 1945 a 2,5 milioni nel 1995. Globalmente circa 34 milioni d’euro in pesticidi sono usati nelle fattorie, nelle imprese agricole, dai privati per i loro orti e prati all’inglese e per ragioni di salute pubblica, in caso d’infestazione d’insetti.

Oltre ad un aumento in quantità c’è stato anche un aumento in qualità, nel senso che la tossicità dei pesticidi d’oggi è da 10 a 100 volte maggiore rispetto a quella degli anni ’70. In altri termini, quantità e tossicità sono aumentate in sinergia tra loro. Il vantaggio è che oggi i pesticidi rimangono attivi per un periodo più corto che in passato e decadono nel giro di pochi giorni in sottoprodotti inerti o, soltanto, minimamente tossici. Cina, India e Brasile hanno piani per costruire nuove industrie e il commercio internazionale è decuplicato.

Dall’altra parte della bilancia, l’impatto sociale ed ecologico di questa industria rimane insufficientemente definito, adombrato. Il WHO (Organizzazione Mondiale della Sanità), in accordo con altre organizzazioni, stima che più di 500 persone muore ogni giorno a causa dei pesticidi e altre 8000 rimangono avvelenate (anche se una buona parte si avvelena volontariamente a seguito del fallimento del raccolto). Le persone esposte ad alti livelli di pesticidi hanno più facilità di sviluppare problemi cardiaci, oncologici e del sistema immunitario.

Dopo circa 40 anni dalla pubblicazione di “Silent Spring” (Carson, 1962), i pesticidi continuano a danneggiare il mondo intero; i biologi stimano che 67 milioni d’uccelli muoiono ogni anno soltanto negli Stati Uniti, inoltre creano deformazioni a molti cuccioli d’animali selvatici come le aquile dei Grandi laghi nel Nord America, i coccodrilli in Florida, i pesci in Gran Bretagna e gli avvoltoi in India.

I POP hanno un effetto perturbatore sul sistema ormonale, giocando un ruolo importante su diversi problemi della riproduzione e dello sviluppo, cosi come altri problemi di disfunzione neurologica e immunologica sull’uomo e su alcuni animali (PNUE, 2000).

Abbiamo visto con il buco dell’ozono [e con l’effetto serra[5]] che gli effetti possono avere un impatto globale; anche con l’agricoltura quello che avviene in una precisa zona geografica può causare degli effetti negativi anche a migliaia di km di distanza. La signora Watt-Cloutier[6], vicepresidente della conferenza circumpolare Inuit ci dice: “ A causa del regime alimentare tradizionale del loro paese, i bambini assorbono un’alta quantità di POP (inquinanti organici persistenti) tramite la placenta e il latte materno. Questo è sia un problema di sanità pubblica che di sopravvivenza della nostra cultura. Se noi non possiamo più mangiare i nostri alimenti tradizionali è inevitabile che il nostro modo di vita scomparirebbe”.

Questi prodotti chimici minacciano ugualmente anche la fauna; studi effettuati dall’Istituto Polare Norvegese nelle isole Svalbard hanno messo in evidenza che un numero significativo di orsi polari ha subito una mutazione dell’apparato sessuale a causa di questi prodotti chimici. Fabbricati e utilizzati a centinaia e migliaia di km di distanza, questi prodotti (ed anche altri), trasportati dalle correnti, dai venti e dagli stessi animali per bioaccumulazione, si riversano sull’Artico entrando nella catena alimentare fino a raggiungere l’uomo.

In India, oltre alla nube tossica che uccise migliaia di persone nel 1984 a causa della fabbrica di pesticidi Union Carbide ®, a Bophal sono critiche anche le condizioni dell’acqua potabile ormai contaminata dai rifiuti tossici lasciati nello stesso sito abbandonato[7].

Si potrebbe parlare dei pesticidi ancora molto a lungo, sia perché i testi che trattano l’argomento non mancano, sia perché il dibattito che si portano dietro molto spesso sconfina in un dibattito politico, tra ecologisti e economisti, tra globale e locale, oppure tra multinazionali e commercio equo e solidale, tra il bene e il male, ecc., un dibattito che crea tutti i presupposti per il classico dualismo da quattro soldi, che serve generalmente a disperdere le energie ed a non affrontare il problema in maniera efficace. Un dibattito che utilizza l’argomento “pesticidi” come pretesto per schierarsi con l’una o con l’altra fazione.

Senza estendere il problema alle condizioni di vita degli animali allevati nei grandi stabilimenti, ai concimi minerali e alla biotecnologia applicata all’agricoltura, il problema dei pesticidi è lungi dall’esser risolto e molto spesso la componente psicologica gioca un ruolo fondamentale.

Nel 1998 è stata adottata la Convenzione di Rottherdam (ONU, 1998), che dovrebbe proteggere la salute delle persone e l’ambiente, attraverso l’incoraggiamento all’assunzione delle responsabilità e di una linea di cooperazione nel commercio internazionale di sostanze chimiche, oltre che promuovere un’uso ecologicamente razionale e un’informazione più trasparente degli stessi.

Il problema maggiore, tuttavia, rimane sempre l’eccesso nell’uso dei pesticidi.

 

3.3.3. Resistenza naturale ai pesticidi

L’aspetto più cruciale è il fatto che gli agenti infestanti che si combattono con i pesticidi si sono adattati al nuovo ambiente. Il continuo stress da essi subito ha creato in loro una resistenza. Il pesticida, infatti, non colpisce al 100%, permettendo alle specie immuni la piena libertà di dominare sulle altre specie. Allo stesso tempo, lo stress indotto dal pesticida induce le specie infestanti a creare un certa resistenza. Se il pesticida è usato regolarmente, l’agente infestante ha tutto il tempo di difendersi da esso, sviluppando geneticamente una resistenza che lo porta a diventare immune. Ovvero l’uso dei pesticidi crea una profonda alterazione dell’equilibrio delle specie. La resistenza naturale al DDT appare sin dal 1946 e oggi la resistenza ai pesticidi è stata riscontrata in circa 1000 specie infestanti e un crescente numero di esse sono resistenti ad un notevole numero di pesticidi. Questo pone un problema non solo di carattere sanitario, ma anche di carattere funzionale. In altri termini i presupposti che esistono per l’utilizzo dei pesticidi sono sempre meno validi, in quanto il pesticida riesce sempre meno a svolgere la sua funzione primaria. Ciò crea un circolo vizioso nel quale, da una parte, per mantenere una certa efficacia del prodotto l’industria chimica è obbligata ad aumentare la forza del pesticida, quindi la sua tossicità, e dall’altra il consumatore del pesticida (il coltivatore), vedendo ridurre gli effetti, è costretto ad aumentarne le dosi. Arrivati però ad un certo livello soglia anche la pianta stessa comincia a risentire delle alte dosi, e comincia a resistere, fino al caso limite oltre il quale muore. Vedremo che le biotecnologie hanno in parte ovviato a tale problema (cfr par 3.5.).

Il problema, però, sta anche su altre direzioni. La malaria è anche la ragione per la quale difficilmente si può fare a meno del DDT. Le 60 specie di zanzare che trasportano la malaria vengono combattute con l’utilizzo del DDT. La malaria uccide un milione di persone e ne contagia mezzo miliardo ogni anno; allo stesso tempo, il parassita Plasmodium (all’origine della malaria) ha sviluppato una buona resistenza a molti farmaci, così come le zanzare che lo trasportano hanno fatto con molti insetticidi. Tutto questo succede nelle zone equatoriali e sub-tropicali dove le zanzare hanno il loro habitat naturale.

Sin dal 1955 il WHO o l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) propone il DDT come la migliore arma, ma col passare del tempo questa convinzione è cambiata (Mc Ginn, 2000). Non ci sono dubbi che la malaria faccia più vittime del DDT, ma nell’ultima campagna contro la malaria, l’OMS ha precisato che il DDT deve essere usato in condizioni d’emergenza e di reale necessità. Bisogna partire prima dall’opzione meno tossica e solo successivamente utilizzare quella più invasiva. La malaria è anche un problema d’educazione sanitaria, che consiste nell’utilizzo di zanzariere imbevute in sostanze repellenti, nel drenaggio delle acque ristagnanti o nella copertura delle latrine a cielo aperto. Già questo riduce dal 30 al 60 % la trasmissione della malaria. Soltanto dopo aver usato tutte queste precauzioni (ed altre), si partirà con l’uso di pesticidi alternativi al DDT, in maniera strategica e mirata, studiando la specie di zanzara e il suo comportamento. 

Sotto un’altra ottica, dunque, limitando l’uso di pesticidi in agricoltura, possiamo preservare il loro impiego e l’efficacia per la funzione sanitaria di disinfestazione da virus e batteri patogeni per l’uomo.

 

3.3.4. I concimi minerali

Un paese da solo, qualsiasi sia la sua diligenza, non può risolvere il proprio problema d’inquinamento dovuto all’agricoltura convenzionale, per la semplice ragione che gli effetti sull’ambiente sono spesso planetari. Prendiamo il Golfo del Messico: importante per la pesca, il turismo, riserva del 75 % degli uccelli acquatici migratori dell’America del Nord, esso è anche uno dei punti caldi nel mondo per quanto riguarda gli ecosistemi marini. Esso riceve un’eccessiva quantità di sostanze nutritive provenienti dal ruscellamento dei concimi portati dal Mississippi, il cui bacino raccoglie le acque del 40% della zona continentale degli Stati Uniti. Tutto ciò contribuisce a creare nel golfo una zona morta (dagli anni ’90) coperta dalle alghe, le quali consumano l’ossigeno necessario ai pesci e coprono i raggi del sole, provocando la morte o la migrazione di massa su una superficie di 1688 km². Una cosa simile è avvenuta in Italia negli anni ’90, sulla riviera Adriatica, ma con un impatto ambientale minore, giacché nella zona costiera della Carolina del Nord morirono milioni di pesci.

I concimi minerali si dividono in tre tipi: quelli a base d’azoto, quelli a base di fosforo e quelli a base di potassio, senza contare il carbonio. Ognuno di essi, soprattutto quando l’utilizzo è in eccesso, ha un effetto diverso e talvolta cumulativo sull’ambiente. Per quanto riguarda i problemi d’eutrofizzazione descritti poco sopra, per esempio, i tre composti cumulano il loro impatto.

Inoltre la solita causa provoca molteplici effetti negativi, in altre parole il ruscellamento di concimi chimici lungo il Mississippi è anche il principale responsabile dell’inquinamento dell’acqua nelle zone agricole degli USA (60 % della lunghezza dei corsi d’acqua e il 57 % della superficie dei laghi, oltre che delle acque sotterranee. Circa 950.000 km² tra USA e Canada sono interessati dalla degradazione del suolo e l’erosione (PNUE, 2000). Questo per ribadire che gli effetti dei diversi concimi minerali si differenziano e si cumulano tra loro.

Andiamo a vedere, per esempio, quali sono le conseguenze per l’ambiente dell’enorme aumento del carico d’azoto:

·        eutrofizzazione delle acque dolci: infiorescenza d’alghe, morte dei pesci, diminuzione dell’ossigeno;

·        diminuzione della diversità vegetale a causa dell’adattamento di alcune specie meglio preparate ad utilizzare l’azoto come fattore di dominio sulle altre;

·        il deposito d’azoto, ugualmente una causa di degrado importante del suolo: il livello elevato d’azoto nel suolo aumenta la lisciviazione dei minerali quali il potassio e il calcio che favoriscono la crescita delle piante e sono elementi essenziali per la protezione dall’acidità del suolo;

·        ossidazione dell’azoto attraverso i batteri del suolo e le acque di superficie diventa un fattore d’aumento dell’effetto serra, dell’ozono atmosferico oltre che d’impoverimento dell’ozono stratosferico, seppur in minima parte;

·        aumento della concentrazione d’azoto nell’acqua potabile nei suoi composti chimici come nitriti e nitrati.

 

Gli scienziati sono sempre più convinti che l’ampiezza della perturbazione del ciclo dell’azoto potrebbe avere delle conseguenze mondiali comparabili a quelle del ciclo del carbonio. L’unico dato a favore, se pur non facilmente misurabile, sta nell’interazione con il ciclo del carbonio. L’aumento dell’azoto globale, favorendo l’accrescimento della biomassa totale, genera un ampliamento del potenziale di stoccaggio del carbonio (PNUE, 2000), con conseguente riduzione dell’effetto serra.

Tuttavia i concimi minerali assieme ai pesticidi permettono di ottenere un produzione agricola almeno del 30% maggiore. Il problema anche qui sta nell’eccessivo uso dei concimi chimici, che non riuscendo a fissarsi nelle piante si disperdono nell’ambiente per:

·        ruscellamento superficiale;

·        evaporazione atmosferica;

·        infiltrazione sotterranea;

·        fissazione dell’azoto, del fosforo e del potassio a beneficio delle piante infestanti.

 

Un’utilizzazione mirata e ben bilanciata garantisce una totale fissazione da parte delle piante, senza dispersione nell’ambiente.

 

3.3.5. Il suolo agricolo

Le attività umane hanno degradato circa 2 miliardi di ettari di suolo, cioè il 15 % delle terre emerse del globo. Le principali forme di degrado del suolo sono: l’erosione idrica (56%), l’erosione eolica (28%), il degrado chimico (12%) e il degrado fisico (4%). I principali fattori di degrado sono: il sovrapascolamento (35%), la deforestazione (35%), le attività agricole (27%), il sovrasfruttamento della vegatazione (7%) e le attività industriali (1%) (GACGC, 1994). Le zone urbane occupano soltanto l’1% delle terre emerse (PNUE, 2002, pag 67).

Il degrado dei suoli genera una riduzione della capacità produttiva della terra. In agricoltura le attività umane che contribuiscono al degrado sei suoli sono: l’uso inadeguato delle terre agricole, la cattiva gestione dell’acqua, la deforestazione, la riduzione della vegetazione naturale, l’utilizzo frequente delle pesanti macchine agricole, il pascolamento eccessivo, una cattiva rotazione delle colture e un’irrigazione senza canali di scolo. A queste si aggiungono le catastrofi naturali come l’aridità, le inondazioni e il dissesto idro-geologico, per i quali l’uomo rimane pur sempre parzialmente e indirettamente responsabile. All’inizio degli anni ’90, circa il 23% dell’insieme delle terre utilizzabili (esclusi quindi montagne, deserti, paludi, ecc...), hanno una produttività agricola potenziale ridotta: circa 910 milioni di ettari sono stati classificati a “degrado moderato” e 305 a “forte degrado” (Oldeman, Hakkeling e Sombroeck, 1990; PNUE , 1992).

Il suolo agricolo è alla base del 90 % dello stock di cibo per l’umanità, oltre che dello stock di fibre e d’altri fattori produttivi. Il suolo agricolo non è rinnovabile, se non in migliaia di anni. La sua resilienza e la sua capacità di filtrare ed assorbire gli stress esterni vengono percepiti soltanto alla luce di uno stato avanzato di degrado e soltanto, successivamente, al superamento di certi livelli soglia. Inoltre c’è un chiaro collegamento tra cambiamento climatico, sviluppo sostenibile, qualità dell’ambiente e degrado del suolo.

 

 Figura 3.1. Contaminazioni agricole nell’UE 15 e contaminazioni ambientali in Europa dell’Est

Fonte:New Cronos and Regio databases, EC (1997); FAO (1997)

 

La tendenza verso un’agricoltura estensiva riduce anche le emissioni di metano (secondo responsabile dell’effetto serra in valore assoluto, ma primo in valore relativo), degli ossidi d’azoto (responsabili dell’ozono troposferico) e di NH4 (ammoniaca) (Swiss Agency for the Environment Forest and Landscape, 1997). A livello Europeo la diversità e la multifunzionalità del terreno contribuisce alla varietà culturale dell’Europa, oltre a garantire uno sviluppo sostenibile.

La desertificazione è un esempio estremo d’effetto sinergico tra clima e non sostenibile uso dell’acqua e del terreno; ma la desertificazione non è soltanto un problema delle regioni soggette ad un clima secco, bensì anche dell’area del Mediterraneo. Un po’ in tutta Europa si assiste ad una contaminazione più o meno importante dell’acqua di falda da parte di pesticidi vecchi e nuovi, come pure ad un aumento dell’eutrofizzazione dei laghi, dei fiumi e d’alcune zone costiere: ci ricordiamo ancora le alghe nel mare Adriatico?!

La gestione non sostenibile del terreno è uno dei problemi principali dell’agricoltura in Europa, ma non in tutta l’Europa e non per le stesse ragioni. Se guardiamo la fig. 3.1., notiamo delle aree geografiche nelle quali l’agricoltura intensiva è molto presente e nelle quali l’uso di pesticidi e di fertilizzanti chimici è notevole ed altre nelle quali l’ausilio chimico è molto più ridotto. La figura 3.1. individua, in base alla quantità e qualità di sostanze chimiche usate, i terreni a alta e bassa intensità chimica nell’agricoltura secondo la seguente tabella (3.2.):

 

Tabella 3.2.  Classificazione delle sostanze chimiche apposte in figura 3.1.

Tipo di sostanza

BASSA (LOW)

MEDIA

ALTA (HIGH)

Fertilizzanti

< 50 kg/ha

50 - 100 kg/ha

> 100 kg/ha

Pesticidi

< 1 kg/ha

1 - 2 kg/ha

> 2 kg/ha

Azoto

< 50 kg/ha

50 - 100 kg/ha

> 100 kg/ha

Fonte: New Cronos and Regio databases, EC (1997); FAO (1997)

 

Nella figura 3.1. appaiono anche altri tipi di contaminazione relative all’Europa dell’Est (radioattiva, da metalli pesanti, da idrocarburi) ciò per indicare che il livello di gravità tra le diverse forme di contaminazione e l’uso elevato di composti chimici in agricoltura non sono molto distanti sulla scala dei rischi ambientali.

Oggi, tuttavia, l’agricoltura è orientata sempre più verso forme meno intensive e l’utilizzazione di concimi sta diminuendo un po’ in tutta Europa, grazie anche agli incentivi posti per favorire questo cambiamento. Da qualche anno in Europa c’è una graduale riduzione dell’apporto di concimi chimici e di pesticidi. In questo, la Comunità Europa ha giocato sicuramente un ruolo decisivo nell’invertire la tendenza (cfr par 4.2.).

3.4. Agricoltura e ambiente politico

 

3.4.1. La Politica Agricola Comune

Prendiamo come esempio il caso europeo per capire come si è evoluta, in politica, la percezione dell’agricoltura a partire dagli anni ’50, proprio perché è molto simile al caso svizzero. Sono stati degli anni fondamentali del passaggio da un’agricoltura tradizionale ad un’agricoltura moderna ed il contributo offerto dalla politica non è stato da meno. Un contributo, che però, si è focalizzato troppo sull’aspetto economico e produttivo, deterritorializzando l’agricoltura attraverso un’esaltazione delle leggi della concorrenza e della competitività, e poco sugli aspetti di valorizzazione territoriale, regionale e multifunzionale (Grillotti, 1992).

La Politica Agricola Comune (PAC) venne creata dai sei paesi firmatari per raggiungere tre scopi essenziali individuati dal Piano Mansholt alla Conferenza di Stresa del 1958 (Com 60/105):

·        incrementare la produzione agricola (inizialmente dei cereali);

·        assicurare un tenore di vita equo agli agricoltori;

·        garantire la stabilità del mercato e l’approvvigionamento dei consumatori a prezzi ragionevoli.

 

Gli strumenti da utilizzare erano sostanzialmente due: la riorganizzazione dei mercati agricoli e la politica dei prezzi. Nella stessa conferenza furono invece trascurati altri scopi, poi rivelatisi importanti, messi in evidenza dal Piano Mansholt:

·        risolvere il problema di eventuali eccedenze che l’aumento della produzione avrebbe favorito;

·        tentativo di regionalizzazione dell’agricoltura tramite dei piani di sviluppo regionale per migliorare strutture e modernizzare le imprese, in particolare quelle a conduzione familiare;

 

Successivamente (Consiglio dei Ministri, 1962), venne approvata la creazione di un Fondo Europeo di Orientamento e Garanzia (FEOGA) che avrebbe finanziato tutte le iniziative della PAC. Negli anni ’70 si estese la politica dei prezzi e dei mercati agricoli ad altri prodotti (vino, tabacco, latte, ortaggi e frutta) favorendo specificatamente quei prodotti dell’agricoltura nord europea (modello nord-atlantico) e si riconobbe la necessità di ridurre le eccedenze e gli interventi strutturali (Grillotti, 1992).

I limiti della PAC e gli effetti negativi della politica dei prezzi vennero messi in risalto dal notevole incremento del costo dei fattori produttivi impiegati per la modernizzazione dell’agricoltura (mezzi chimici e meccanici), dall’aumento della produzione e dall’inerzia dei redditi degli agricoltori. Con gli anni ’80, per effetto anche di congiunture internazionali sfavorevoli, tali problemi cominciarono ad arrivare al pettine:

·        Il sostegno dei prezzi arriva ad i suoi limiti di spesa, obbligando le amministrazioni ad un giro di vite, riguardante il tetto massimo di produzione garantita per ogni prodotto entro il quale sostenere i prezzi.

·        Si rese finalmente necessaria una regionalizzazione della politica delle strutture, come previsto dal Piano Mansholt del 1958.

·        La diminuzione della domanda interna ed esterna, a fronte di un aumento della produzione ottenuto a dispetto di una diminuzione di ben il 35 % della popolazione agricola dal 1975 al 1989, produsse delle eccedenze.

·        I “prezzi garantiti” hanno spinto artificialmente la produzione, provocando sia un aumento impressionante delle spese d’assorbimento e stoccaggio delle eccedenze, sia un avvelenamento crescente dell’agricoltura (impiego massiccio di fertilizzanti e antiparassitari).

 

Nella seconda metà degli anni ’80 e particolarmente negli anni ’90 l’attenzione si sposta dal sostegno alla produzione, a quello alle aziende; dagli incentivi per la cessazione e modernizzazione dell’attività agricola, a quelli per il rimboschimento e al mantenimento degli agricoltori delle aree marginali soggette ad esodo agricolo; dalla resa unitaria all’ambiente (v. par 4.2).

Il paradosso rimane pressochè il solito: cercare un modello di sviluppo puntando su imprese che ne adottano un altro (Grillotti, 2000), cioè si cercava di favorire un modello di sviluppo per le piccole imprese, ma in realtà furono soltanto le grandi imprese a beneficiare degli aiuti.

 

3.5. Agricoltura e biotecnologie

 

3.5.1. L’impatto socio-ambientale

Fino a qualche anno fa, i contadini erano coloro che avevano la mansione di lavorare la terra e di produrre attraverso l’agricoltura gli alimenti per la nostra società. Il lavoro era duro e soltanto i contadini conoscevano i segreti della terra e il modo col quale far nascere e crescere una pianta o un frutto. Un po’ come i dottori in medicina, gli avvocati nel diritto, i politici in politica e i cuochi in cucina. Col passare del tempo le cose sono cambiate: i contadini, sempre meno numerosi, sono stati “rimpiazzati” dai chimici e dai biologi. La fuga dalle campagne e l’ininterrotta diminuzione degli addetti nel settore primario, hanno creato un vuoto che è stato parzialmente colmato da un sostanziale aumento della produttività del lavoro, con peggioramento della qualità del prodotto. Basterebbe ascoltare le nostre nonne per renderci conto di ciò!

Con il passare del tempo in agricoltura si è guardato più al margine economico che alla qualità. Il duro lavoro del contadino è stato rimpiazzato con il razionale lavoro degli agronomi, dei biologi e anche degli ingegneri genetici sulla nuova frontiera della biotecnologia. Oggi con gli OGM (Organismi Geneticamente Modificati) ci troviamo in una situazione analoga a quella degli anni ‘50, quando i pesticidi sintetici furono scoperti; oggi, come negli anni ’50, non conosciamo molto del reale impatto ambientale dei nuovi OGM; ma oggi, come negli anni ’50 sappiamo degli interessi economici legati a questa nuova frontiera, anche perché, alcune delle “anziane” multinazionali (Dupont, Dow e Monsanto) che producevano prodotti chimici come l’Agent Orange o i PCB hanno riconvertito i loro investimenti verso il nuovo “miracolo” dell’ingegneria genetica (Lappè, Baley, 1999).

Il primo raccolto geneticamente modificato fu prodotto nei primi anni ’70: in California venne creata una fragola resistente al gelo. Il risultato, per quanto riguarda la resistenza al gelo, fu insoddisfacente, ma nuovi geni più robusti e nuovi organismi vennero testati. Il gene di una noce dal Brasile ricco in metionina fu inserito nella soia per aumentarne il tenore in proteine, sfortunatamente un gruppo di scienziati scoprì che la “nuova” soia conteneva le proprietà allergiche della noce del Brasile, rendendola difficilmente commerciabile.

Questa tendenza, che è andata avanti per anni, vede l’agricoltura come uno strumento di accumulazione economica e non come una finalità della multifunzionalità in agricoltura. Ci sono dei casi nei quali il raccolto viene “programmato” a partire da una provetta in laboratorio, con la quale si è sintetizzato il seme che meglio si adatterà ad un determinato pesticida. Questa tendenza vede il contadino diventare un attore privato della sua saggezza e del suo “amore per la terra”, grazie al quale per secoli l’agricoltura tradizionale si è evoluta in equilibrio tra società e territorio, tra uomo e natura (cfr par 3.1.2.).

Su logica opposta, il contributo dato dalle scienze naturali all’agricoltura è stato necessario per colmare la vertiginosa riduzione dei contadini (che ancora è in atto nei paesi in via di sviluppo) e il repentino incremento demografico. La fuga dalle campagne e l’urbanizzazione hanno creato un vuoto di risorse umane che è stato colmato dalla meccanizzazione, dalla tecnologia e dalle scienze agrarie e naturali, applicate all’agricoltura. In altri termini il progresso ha incrementato notevolmente la produttività del lavoro di coloro che sono rimasti nel settore primario. Le domande che sorgono spontanee a questo punto sono:

Anche le biotecnologie stanno realmente dando all’agricoltura un contributo analogo?

L’utilizzo delle biotecnologie crea veramente un beneficio per la società?

Per rispondere a questi quesiti, sarebbe molto utile leggere il libro di Anna Meldolesi (2001) “Organismi geneticamente modificati. Storia di un dibattito truccato”.

 

3.5.2. La questione politica

La questione OGM si gioca attorno ad un dibattito globale che interessa la scienza, l’economia e la politica, relegando l’agricoltura su un piano marginale. Un dibattito globale che si contrappone a quel carattere locale (cfr par. 2.5.) tipico dell’agricoltura tradizionale, che la vedeva attrice incontrastata dell’ecogenesi territoriale.

Il dibattito sulle biotecnologie applicate all’agricoltura ha la generica dualità propria dei dibattiti politici:

·        da una parte c’è chi nelle moderne biotecnologie verdi vede la leva per far compiere all’agricoltura un nuovo salto di qualità, investendo sempre maggiori capitali e energie;

·        dall’altra c’è chi vede nei prodotti geneticamente modificati (Ogm) che ne derivano, un pericolo per la salute umana, per l’equilibrio degli ecosistemi e per le economie dell’Europa e del Terzo Mondo.

 

Si tratta di un dibattito globale che coinvolge governi, diverse agenzie delle Nazioni Unite, le multinazionali agro-alimentari e della chimica, partiti, scienziati, movimenti, associazioni, nonni, il variegato mondo dei No-global ed anche importanti autorità religiose. Coinvolge tutti, perché tutti ne sono interessati. Come spesso avviene nei casi di discussioni di così largo raggio, anche in questo caso i fatti hanno subìto una distorsione mediatica. In altri termini, il confronto delle parti si basa su una sistematica distorsione dei fatti (scientifici, tecnici ed economici) e spesso i veri motivi che muovono tale dibattito si ritrovano nella dualità tra locale e globale, tra scienza e politica, tra innovazione e conservazione, tra economia ed ecologia, tra bene e male, senza realmente preoccuparsi dell’agricoltura (cfr. fine par 3.3.3. sui pesticidi).

Da una parte il movimento ecologista (o almeno una parte di esso), vittima del suo stesso fondamentalismo, ha alterato i fatti scientifici creando intorno agli Ogm un generico alone tenebroso. Dietro a certe prese di posizione, talvolta, si nasconde quell’idealismo ecologico che ha come effetto la rigida cecità nei confronti della realtà. Il movimento ecologista che si oppone agli Ogm è riuscito a far passare, non solo a livello di massa, ma anche a livello di governi (soprattutto in Europa) e addirittura di Nazioni Unite (Protocollo di Cartagena sulla Biosicurezza) una visione delle biotecnologie verdi (sulle piante), e dei rischi che comportano, lontana da ogni principio di realtà (Meldolesi, 2001)

Le biotecnologie verdi sono già una realtà e converrebbe tentare di governarle per sfruttarne le potenzialità e garantire la sostenibilità, piuttosto che cercare inutilmente di esorcizzarle. La distorsione mediatica che ne deriva è quella di considerare come “male” ogni tipo di biotecnologia, verde o rossa (produzione di farmaci) che sia. Questo crea non poche contraddizioni, visto che non sono pochi i casi di persone che si curano con medicinali prodotti grazie alla biotecnologia rossa (prendiamo l’esempio dell’insulina prodotta attraverso un batterio modificato), ma che non accettano di vestirsi con una camicia di cotone geneticamente modificato.

Dall’altra parte le multinazionali hanno tratto profitto da tutto ciò, gettandosi a capo fitto in investimenti faraonici già agli inizi degli anni ’90, aumentando consapevolmente la distorsione dei fatti. Con plateale arroganza le multinazionali hanno sviluppato le biotecnologie verdi indirizzate alla massimizzazione dei loro profitti, senza apportare alcun beneficio ai consumatori, né tanto meno all’ambiente. Attraverso un’attenta pianificazione e programmazione esse hanno indirizzato gli investimenti secondo una logica ben precisa, quella della sinergia aziendale. In altri termini le stesse aziende produttrici di pesticidi o le aziende da esse controllate, hanno riconvertito gli investimenti verso le biotecnologie verdi, allo scopo di creare delle sementi che abbiano una resistenza maggiore agli stessi pesticidi (cfr. fine par 3.3.3.). Il risultato è palese: da una parte l’azienda incrementa i profitti dati dalla vendita dei pesticidi e dall’altra ottiene dei nuovi guadagni derivanti dalla vendita delle sementi.

 

3.5.3. L’impatto economico-ambientale

La nuova industria della biotecnologia è strettamente legata a quella dei pesticidi e erbicidi, cosicché la Monsanto ha dominato la produzione mondiale di erbicidi con 26 milioni di sterline anche grazie al fatto che ha creato la soia Roundup® capace di resistere al potente erbicida Roundup® prodotto dalla stessa multinazionale, i cui effetti sull’uomo non sono ancora completamente conosciuti. Un altro esempio ci è dato dal Liberty Link TM sviluppato dalla AgrEvo (la 4° più grande industria chimica del mondo), una tecnologia genetica studiata per essere immune all’erbicida Dupont’s Liberty®. Il sistema STS® brevettato dalla Dupont Agricultural Products è in correlazione con gli erbicidi della Synchrony® e Reliance®. La tecnologia genetica del cotone BXN® è stata sviluppata dalla Calogene (acquisita adesso dalla Monsanto insieme alla Rhône Poulenc), ciò permette di spruzzare un’alta dose dell’erbicida bromoxynil, poiché il cotone ha un gene che lo rende tollerante. Oltre alla soia Roundup®, il cotone Roundup® esistono il mais Yieldgard®, il cottone Bollgard®, le patate Newleaf®, il pomodoro Flavr-Savr® e il pomodoro Endless Summer® e altri ancora, per un fatturato complessivo dovuto all’uso delle invenzioni agrobiotecnolgiche di 46 miliardi di dollari nell’anno 2000 (Les Clés du Monde, 2003).

Dunque i più popolari prodotti agricoli geneticamente modificati contengono dei geni che li rendono immuni o più tolleranti a quegli specifici erbicidi; ciò permette un uso ancora più massiccio degli erbicidi prodotti dalle stesse multinazionali. Sotto un’altra prospettiva, il valore in termini di varietà genetica, di salute umana e d’impatto ambientale si trasforma in profitti derivanti dalla vendita dei semi geneticamente modificati e dalla vendita dei pesticidi ed erbicidi stessi.

Si è quindi creato un circolo vizioso, nel quale nuove tecniche genetiche servono per rilanciare “vecchie” sostanze antiparassitarie. Il risultato è una tendenza all’aumento dell’uso della tecnica genetica, in sinergia, con l’aumento della vendita dei pesticidi e degli erbicidi sintetici. Nel 1997 negli Stati Uniti i due terzi delle colture geneticamente modificate sono state espressamente concepite per resistere agli erbicidi (USDA/APHIS, 1997).

Non abbiamo ancora parlato dei danni direttamente derivanti dall’alterazione genetica dei prodotti agricoli sulla salute dell’uomo, ma credo che ci troviamo in una situazione analoga a quella degli anni ’50, quando i pesticidi e gli erbicidi furono utilizzati in agricoltura per la prima volta, e, come in quel tempo, i reali effetti della nuova tecnologia sono ambigui e saranno scoperti soltanto tra qualche anno.

L’avvento dell’agricoltura genetica sta cambiando i metodi di produzione agricola, ma bisogna chiedersi anche quanto questo cambiamento aumenti veramente lo stock di cibo per l’umanità e quanto invece aumenti soltanto lo stock di capitale delle multinazionali del settore. Alcuni rappresentanti della Caregen e della Monsanto, infatti, giustificano l’avvento dell’agricoltura genetica come risposta all’aumento della popolazione e come possibile soluzione alla crescente richiesta di cibo mondiale. Purtroppo i prospetti odierni contraddicono le loro affermazioni, perché la maggior parte del raccolto di Ogm è usata per l’allevamento e altri usi e non per le persone, il che rende priva di valore ogni affermazione che suggerisce le biotecnologie verdi come la tecnica agricola necessaria all’uomo per risolvere i problemi di fame nel mondo. Inoltre il raccolto per l’allevamento ha dei limiti d’utilizzo e di residui negli alimenti ben minori rispetto al raccolto destinato alle persone (Mc Ginn, 1992).

In realtà là dovremo fare una precisazione molto importante, separando con estrema cura le biotecnologie verdi, che apportano un certo beneficio collettivo, da quelle che limitano il loro beneficio ad un piano prettamente privatistico e soltanto dal lato dei produttori. Ci accorgeremo che tutta quella paura per gli Ogm non è sempre così giustificata, anzi talvolta è proprio questa paura che mantiene viva la distorsione dei fatti.

Quello che è interessante analizzare è la motivazione che sta dietro alla coltivazione di prodotti Ogm. Non è un caso che il golden rice, il riso ricco di beta-carotene, il riso ricco di ferro e i nutriceuticals (sostanze che sono insieme alimenti e farmaci), che promettono di migliorare la dieta povera di vitamina A e/o di ferro, dando un contributo diretto e visibile a risolvere i problemi di cecità e anemia di milioni di persone nel Terzo Mondo, siano stati messi a punto in un laboratorio pubblico della apparentemente scettica Europa (quello del Politecnico federale di Zurigo), grazie anche al finanziamento di un’organizzazione americana che non ha fini di lucro, come la Rockefeller Foundation.

Importante è riuscire a capire quale è la motivazione principale degli investimenti, quali sono gli obiettivi aziendali che incentivano il finanziamento in ricerca & sviluppo delle biotecnologie verdi. Una prima divisione, che riprenderemo nel prossimo capitolo (cfr. cap. 4.) è quella tra motivazioni di carattere privatistico e motivazioni di carattere collettivo.

Un’azienda spinta da obiettivi d’ordine privatistico cercherà, nel migliore dei modi, di massimizzare i propri profitti e di ottenere un beneficio privatistico dagli investimenti in R&S effettuati. Lavorando sull’immagine aziendale e su attenti piani marketing, si adopererà per conquistare sempre nuovi mercati, massimizzando i profitti, mentre un’azienda spinta da obiettivi di carattere collettivo, generalmente con un’efficienza minore, cercherà di realizzare gli obiettivi statutari attuando investimenti che arrechino benefici alla collettività, verso progetti generalmente senza scopo di lucro.

Già l’assetto proprietario ci aiuta a distinguere le due differenti motivazioni. Una società di capitali, generalmente una s.p.a. quotata in borsa già attiva da tempo in qualità d’azienda chimica o agrolimentare multinazionale, con molta più facilità sarà spinta da motivazioni di carattere privatistico, mentre una fondazione, un’associazione senza fini di lucro o un’azienda pubblica sarà spinta da motivazioni di carattere collettivo e non cercherà di sfruttare, ai fini aziendalistici, le sinergie che ci sono tra produzione di pesticidi e sviluppo delle biotecnologie.

Questa distinzione, apparentemente scontata, ci permette di effettuare una prima importante constatazione, alla luce anche dell’impreciso e sconosciuto effetto delle alterazioni genetiche e del ben conosciuto impatto dei pesticidi sulla salute dell’uomo e sull’ambiente.

Motivazioni di carattere privatistico delle aziende biotecnologiche verdi arrecano un danno certo all’ambiente dato dal maggior uso dei pesticidi, mentre motivazioni di carattere privatistico delle aziende biotecnologiche rosse (produzione di farmaci) non necessariamente aumentano il carico di pesticidi nell’ambiente. L’unica eccezione è quando anche le aziende farmaceutiche hanno il controllo di qualche azienda chimica produttrice di pesticidi o hanno un certo interesse nel promuovere la vendita dei pesticidi.

In altri termini, quando nelle aziende biotecnologiche oltre all’interesse privatistico sussiste un collegamento con aziende chimiche produttrici di pesticidi, è molto probabile che la ricerca e la produzione siano mirate alla vendita di pesticidi. È un classico esempio di bolla speculativa a danno dell’ambiente, potenzialmente assimilabile dalle aziende chimiche e/o biotecnologiche come “sinergia aziendale”.

La generica demonizzazione dei prodotti Ogm reca vantaggio soltanto alle multinazionali, le quali hanno potuto acquisire quasi il monopolio delle moderne biotecnologie, con quella forsennata corsa ai brevetti e quel carillon vertiginoso d’ingegneria finanziaria e aziendale che Anna Meldolesi (vedi nota 15) ha scrupolosamente documentato. Questa plateale arroganza ha generato preoccupazioni non solo nel grande pubblico, ma anche nei governi. Si tratta di preoccupazioni politiche ed economiche legittime, anche se troppo spesso hanno suscitato reazioni scomposte, che hanno finito per inquinare anche il dibattito scientifico.

Non è un caso che le biotecnologie di seconda generazione, quelle che mirano a produrre vantaggi diretti per i consumatori (e magari per i consumatori poveri), stiano emergendo solo ora e fuori dai laboratori delle multinazionali. Tutte le indagini in tutto il mondo dimostrano che la gran parte delle persone ha un'immagine positiva delle biotecnologie rosse proprio perché vede un beneficio diretto per la propria salute, mentre nutre dubbi sulle biotecnologie verdi perché quel beneficio diretto non riesce ancora a vederlo. Tre quarti degli europei si dichiarano scettici e poco fiduciosi degli Ogm, senza distinzioni tra Ogm verdi o Ogm rossi (Les Clès du Monde, 2003).

Negli Stati Uniti le biotecnologie verdi hanno più successo, tanto che 39 milioni di ha (390.000 km²), una superficie più grande dell’Italia, sono ufficialmente coltivati con Ogm. Segue l’Argentina con 13,5 milioni di ha, il Canada con 3,5 milioni di ha, la Cina con 2,1 milioni di ha, l’Africa del Sud con 300.000 ha e l’Australia con 100.000 ha (Les Clés du Monde2003). Per quello che riguarda la qualità delle piante coltivate, il 61% delle colture transgeniche riguarda la soia, il 21% il mais, il 13% il cotone e il 5% la colza (Les Clés du Monde, 2003).

Nel 2002 la Zambia, dove la fame minaccia 2,4 milioni di persone, ha ufficialmente rifiutato l’aiuto alimentare americano, in quanto conteneva dei prodotti Ogm.

Tuttavia, numerosi farmaci (prodotti con le biotecnologie rosse) sono già in commercio, oltre l’insulina, l’ormone della crescita, un vaccino contro l’epatite B, ecc….. Alcuni batteri Ogm sono utilizzati per smaltire certi inquinanti dai suoli contaminati. Senza contare i biocombustibili, gli alberi per una produzione di carta meno inquinante, coltivazioni batteriche, ecc….

In definitiva, però, non conosciamo gli effetti sull’uomo nel lungo periodo della somministrazione ripetuta di alimenti geneticamente modificati. Chissà se anche qui potremo dire che dipenda dalla quantità (cfr. par 3.3.)?

 

3.6. Agricoltura moderna

 L’agricoltura moderna provoca quindi un’alterazione globale dell’ambiente, in alcuni casi in modo cronico e/o acuto. Questo capitolo serve a dare un’idea generale del reale costo collettivo da imputare all’agricoltura moderna e prende in considerazione molte delle esternalità negative che essa si porta seco.

Un’altra conseguenza diretta legata all’agricoltura moderna convenzionale è il gran consumo d’acqua, soprattutto se lo si considera alla luce dell’incremento demografico e dei bisogni idrici extra-agricoli (consumi domestici e industriali). Il professor Pretty ed altri (2001) hanno stimato che il costo annuale della contaminazione di acqua potabile con pesticidi sia, per la sola Gran Bretagna, approssimativamente 190 milioni di euro all’anno!  In realtà solo questi dati dovrebbe bastare per riindirizzare l’agricoltura verso la sostenibilità, ma come spesso accade in economia, anche l’agricoltura ha sofferto e soffre di miopia temporale; in altri termini, il “tasso di sconto di un evento causa d’impatto ambientale futuro” è generalemente troppo alto, il che rende minimo il suo valore atteso ad oggi, sottostimando i possibili scenari già prospettati dal Club di Roma (Meadows, 1972).

Ricordiamo, tuttavia, che ogni forma d’agricoltura ha un impatto sull’ambiente e che le piante stesse, per difendersi dall’ambiente naturale, secernono dei pesticidi naturali. Ames (Morandini, 2000) ci dice: “il 99,99 % dei pesticidi che noi ingeriamo sono naturali”. Secondo lui i composti chimici di sintesi sono appena una goccia nel mare rispetto ai composti chimici naturali a cui siamo esposti. Tostando il caffè, per esempio, vengono prodotti circa 1000 composti ugualmente tossici. Le piante sono piene di pesticidi naturali (composti che hanno la funzione di proteggere la pianta dai suoi parassiti) e la quantità di pesticidi di sintesi che realmente assorbiamo in qualità di consumatori è minima.

Questa tesi va bilanciata con il fatto che negli Stati Uniti i ricercatori (biologi, chimici, biochimici, ecc...) hanno più fortuna e vengono finanziati meglio, se non si mettono in contrasto con gli interessi delle grandi società chimiche e agroalimentari. Una curiosa coincidenza mi ha portato a conoscere la figlia del prof. Linjiski, famoso biochimico americano, che indagava sulle cause dell’insorgenza dei tumori. Lei mi ha raccontato, che suo padre studiava la responsabilità dei residui dei pesticidi negli alimenti, nell’insorgenza dei tumori. Il suo eterno rivale B. Ames, con il quale ha partecipato a trasmissioni televisive tipo “LINJISKI versus AMES”, invece, indaga sulla tossicità dei pesticidi naturali, quelli prodotti dalle piante in maniera spontanea (v. sopra) e, in linea generale, non mette in dubbio l’utilità e l’assenza di rischio dei pesticidi sintetici sulla salute dell’uomo. Il risultato è stato che, il prof. Linjiski è dovuto andare in pensione, mentre il prof Ames continua ad essere finanziato e sponsorizzato per le sue ricerche che non contrastano le grandi società, nonostante che essi siano coetanei.

Alla luce di ciò, possiamo ricavare tre importanti informazioni:

 

Le cose cambiano se invece di considerare l'impatto sulla salute dell'uomo direttamente imputabile alla somministrazione degli alimenti agricoli, ci concentriamo sull'impatto sull'ambiente. L’impatto sull'ambiente dell'agricoltura biologica rispetto a quella convenzionale è da 6 a 7 volte minore, ma ciò non significa che non ci sia. Questa è una stima imprecisa e che si basa sulle medie dei valori, ma comunque sia ci dice che con l’agricoltura biologica c’è una riduzione da 6 a 7 volte del danno ambientale, che si traduce in una riduzione dei costi sociali e del carico degli inquinanti sulla salute dell’uomo.

Infine, va ricordato che, sulla “scala del rispetto dell’ambiente”, esiste una forma di agricoltura ancora più in sintonia con l'ambiente (intero universo): l' agricoltura biodinamica (v. par 4.1.2.). I principi su cui si fonda furono formulati da Rudolf Stainer (1973), il fondatore dell’antroposofia, una concezione dell’uomo e del mondo che ha portato, nel primo quarto di questo secolo, un rinnovamento fertile nel campo della medicina, della pedagogia, dell’arte e della scienza in genere.

Dal sito sull’agricoltura biodinamica si può ricavare il seguente pensiero[8]: “La coltivazione biodinamica implica tutto un modo di vivere, osservare e lavorare la terra. Il suo scopo non è di lasciar fare alla natura, ma di fare oltre la natura, cioè di aiutare la natura per ottenere una terra sempre più fertile, della quale possano beneficiare anche le generazioni future, e alimenti vivi di qualità piena che nutrano l'uomo e gli diano salute. Coltivare biodinamicamente non vuol dire applicare in modo meccanico un metodo fisso. Piuttosto si può parlare di un indirizzo per il nostro pensare e agire, che poi svilupperemo secondo le condizioni e i problemi che incontreremo sulla nostra terra”.


4. TRANSIZIONE DALL’AGRICOLTURA MODERNA A QUELLA SOSTENIBILE. IL CASO-STUDIO : L’AGRICOLTURA SVIZZERA

 

4.1. Agricoltura sostenibile

4.1.1. Definizione di sostenibilità in agricoltura

La definizione classica d’agricoltura sostenibile, definisce: “Un’agricoltura che permette di fornire indefinitivamente i beni e i servizi che gli sono demandati, a dei costi economici e ambientali socialmente accettabili” (OCDE, 1997). La definizione di sostenibiltà in agricoltura, non si limita a riconoscere una forma d’agricoltura con un impatto sull’ambiente ridotto, che garantisca l’uso dei terreni coltivati anche per le generazioni future, un’agricoltura sostenibile ha una portata ben diversa, più complessa e più completa.

Dalla definizione di sostenibilità notiamo che, oltre all’aspetto ambientale, devono essere presenti l’aspetto economico e l’aspetto sociale. Inoltre, i benefici dati da essa si dovrebbero estendere all’intera società presente e futura. In altri termini, tutti gli abitanti del pianeta, genazione presente e generazione futura, dovrebbero essere considerati equamente come destinatari dei benefici che ne derivano.

I benefici come vedremo (cfr. par. 4.3. multifunzionalità), sono molteplici, in quanto all’agricoltura  sostenibile non spetta soltanto la funzione di produzione di alimenti per l’umanità (presente e futura), ma anche quella di mantenere la base genetica delle colture, di conservare la diversità biologica delle specie (selvatiche o addomesticate) che vivono nell’ambiente agricolo, di mantenere il terreno in condizioni di fertilità, di garantire un’occupazione decentrata, di sviluppo di zone sfavorite e ricreativa per gli abitanti. Da un punto di vista economico, inoltre, questi benefici devono andare di pari passo con quelli di natura economica, cioè un agricoltura sostenibile è un’agricoltura economicamente efficiente (cfr. par. 4.4. e 4.6.).

La sostenibilità permette una classificazione delle forme di agricoltura moderna :

 

L’impatto sull’ambiente è diverso per ognuna di esse, ma tutte, se pur in misura diversa, ricorrono alla meccanizzazione. Inoltre, non basta, e non è poi cosi strettamente necessario, che un’agricoltura sia biologica per essere definita sostenibile. Vedremo nei prossimi paragrafi che l’agricoltura si sta dirigendo verso la sostenibilità e l’agricoltura biologica sta giocando un ruolo importante per questo cambiamento, un ruolo trainante. Perciò è un buon esempio da prendere in considerazione.

Abbiamo anche esempi di agricolture tradizionali che hanno portato interi popoli alla rovina ; ad esempio nella Mezza Luna Fertile attraverso l’elevato sfruttamento dei suoli e la mancanza di conoscenza, le terre divennero improduttive e successivamente desertiche, forse proprio perchè la tradizione agricola ancora non era matura.

 Generalmente l’agricoltura tradizionale ha una bassa produttività del lavoro, il che l’allontana dalla sostenibilità. L’agricoltura tradizionale, però, non ha necessariamente una bassa produttività della terra (cfr. cap 1).

Come vedremo nel paragrafo 4.1.3. un modo per capire la sostenibilità in agricoltura è quello di riferirsi alla territorialità. Mentre nel paragrafo 4.3. e successivi, andremo a vedere che l’agricoltura svizzera è sulla strada della sostenibilità. Ma cosa c’entra la Svizzera in tutto ciò? Perché ho scelto la Svizzera come esempio di paese verso la sostenibilità?

Il caso-studio della Svizzera è emblematico per almeno cinque ragioni fondamentali :

·        la sua dimensione demografica e geografica ridotte le permettono di mantenere la flessibilità e l’agilità politica necessaria per le decisioni di una certa portata;

·        sistema politico più diretto, dove lo strumento del referendum popolare è molto usato;

·        una buona situazione economico-finanziaria pubblica, che le permette di trovare le risorse necessarie;

·        la sua posizione di neutralità, che la obbligherebbe moralmente ad essere neutrale anche su un piano ambientale;

·        la sua immagine storica di paese che rispetta l’ambiente, riflessa sia verso gli altri paesi, sia verso essa stessa, che costituisce motivo di orgoglio nazionale.

4.1.2. Breve storia dell’agricoltura biologica e biodinamica

 

 

 

4.1.3. Territorialità e sostenibilità

Attraverso l’analisi della territorialità, avevamo meglio compreso l’importanza dell’agricoltura tradizionale come elemento caratterizzante dell’ecogenesi territoriale (cfr. par 1.1.2. e 3.1.2.), essa modella in modo specifico i paesaggi. Il principale fattore produttivo di tale forma è il lavoro, dell’uomo (feudalesimo, schiavitù o liberi contadini) e degli animali, che nel tempo ha amplificato la specificità territoriale già esistente prima dell’invenzione dell’agricoltura. Abbiamo altresì visto che pratica e conoscenza erano tuttavia percepite come un tutt’uno.

Successivamente abbiamo indagato sulla deterritorializzazione data dall’agricoltura moderna (cfr. par 3.1.3.), soprattutto là dove essa si era potuta sviluppare nella sua forma più pura, rendendo i paesaggi agricoli uniformi e conformi. Abbiamo anche sottolineato il forte impatto che essa ha sull’ambiente. Il fattore produttivo “nuovo” dell’agricoltura moderna è diventato il capitale (macchinari, agenti chimici, ecc…), sia nei paesi socialisti o sia in quelli capitalisti. Con l’agricoltura moderna si ha la definitiva scissione tra pratica e conoscenza, quest’ultima si trasferisce dal paesaggio rurale (tradizione) ai laboratori di R & S (scienza).

Abbiamo poi considerato, attraverso l’esempio dell’Italia, tutti quei casi nei quali modernità e tradizione si sono compenetrate, dando alla territorialità un significato più ampio e specifico (cfr. par 3.1.4.), un significato nel quale agricoltura tradizionale e moderna partecipano, su due piani diversi (locale e globale), a rendere l’agricoltura ancora più ricca e ancora più varia. In Italia convivono il modello nord-atlantico e quello mediterraneo. Anche i fattori produttivi capitale e lavoro si sono equilibrati tra loro; a riprova di ciò consideriamo l’alta percentuale degli attivi nel settore primario rispetto agli altri paesi sviluppati, intorno al 5,5 %, con punte regionali di oltre il 10%.

Andremo a considerare, adesso, il caso dell’agricoltura sostenibile (che non esiste ancora nel suo significato più ampio), come insieme di forme agricole che garantiscono a tutte le generazioni presenti e future la sopravvivenza e la possibilità di godere della multifunzionalità (cfr. par 4.3.1.).

La definizione classica d’agricoltura sostenibile definisce: “Un’agricoltura che permette di fornire indefinitivamente i beni e i servizi che gli sono demandati, a dei costi economici e ambientali socialmente accettabili” (OCDE,1997), vale a dire con una produttività del lavoro e della terra elevata, nella quale siano state computate anche le esternalità negative. Per semplicità considereremo come esternalità anche gli effetti esterni.

Poniamo che P sia la produzione annua, L sia il lavoro nel settore primario espresso in Unità di Lavoro Annuale (ULA), T sia la quantità di terra espressa in ettari di Superficie Agricola Utile (SAU), E siano le esternalità negative annuali, PSL sia la produttività sociale unitaria media del lavoro e PST sia la produttività sociale della terra. Avremo:

 

Queste equazioni misurano il grado di autonomia di un sistema territoriale chiuso (def. di territorialità, Raffestin, cfr par 1.1.2.). Sia C il consumo di prodotti agricoli presente e futuro. Una prima condizione necessaria di sostenibilità è che la produzione, dedotte le esternalità, soddisfi i consumi presenti e futuri. Dunque non diventa più un problema di massimizzazione della produzione, ma:

 

L’agricoltura moderna ha una PSL molto più alta dell’agricoltura tradizionale. Abbiamo visto con l’avvento della meccanizzazione quanto il lavoro di ogni singolo contadino sia stato massimizzato. Parallelamente la PST non ha seguito la stessa dinamica, soprattutto se il confronto si effettua tra un’agricoltura tradizionale come quella cinese e un’agricoltura moderna estensiva, con notevoli esternalità negative (cfr. par 2.4.2.). Con la transizione dall’agricolura tradizionale a quella moderna la PSL ha conosciuto un notevole aumento, mentre la PST talvolta è anche diminuita.

La territorialità, abbiamo visto, esprime le relazioni che intercorrono tra i soggetti e l’ambiente, tramite l’aiuto di mediatori come l’agricoltura, nel tentativo di ottenere la più grande autonomia possibile, compatibile con le risorse del sistema (Raffestin 1986, cfr. par 1.1.2.). Queste equazioni misurano, dunque, il grado di autonomia del sistema territoriale, compatibile con le risorse del sistema. Ma con l’ipotesi della sostenibilità il sistema territoriale si estende anche nel tempo (generazioni future) ed è per questo che le esternalità devono essere internalizzate.

Prendiamo la definizione di esternalità del Baumol (1965), il quale parla “d’interferenza prodotta dalle attività di un soggetto sulla funzione di utilità di un altro soggetto, senza che per questo avvenga una qualsiasi transazione economica”. Le esternalità possono essere considerate “the dark side (la faccia scura)” dell’economia; esistono (che si creda o meno nell’effetto serra), influiscono non solo nell’economia, ma non si vedono ed è difficile darle un valore.

La definizione di territorialità del Raffestin, viene quindi arricchita dell’ipotesi della sostenibilità ovvero, si estende nel tempo e diventa: “l’insieme delle relazioni che intercorrono nel tempo e nello spazio, tra i soggetti e l’ambiente tramite l’aiuto di mediatori come l’agricoltura, nel tentativo di ottenere la più grande autonomia possibile, compatibile con le risorse del sistema”. L’agricoltura è il mediatore tramite il quale i soggetti nel tempo e nello spazio intrattengono delle relazioni, e sono proprio le esternalità (cfr. par 5.3.) a costituire tali relazioni nel tempo.

In realtà, altre azioni costituiscono il vettore nel tempo di tali relazioni, giacchè anche il lavoro di selezione delle specie, il mantenimento e il dissodamento delle terre, le bonifiche, i terrazzamenti, le modifiche dei corsi d’acqua, hanno apportato benefici che si estendono nel tempo, e che in qualche modo si possono ricondurre ad esternalità positive. Attraverso le esternalità e le migliorie (che possono essere considerate esternalità temporali positive), l’agricoltura si fa messaggera nel tempo e nello spazio di tali relazioni.

Oggetto di tali relazioni sono i soggetti e l’ambiente. Il fine è quello di ottenere la più grande autonomia possibile, ma tale autonomia deve essere compatibile con le risorse del sistema, da qui l’esigenza di migliorare l’efficienza sociale (cfr par 4.4.2.), che è un aspetto della sostenibilità, e che si traduce nella verifica delle seguenti equazioni:

 

Tuttavia, sia A il numero totale di abitanti del sistema; L/A = a, cioè il coefficiente delle Unità Lavorative degli addetti in agricoltura rispetto alla popolazione totale, compreso tra 0 e 1; sia T/S = b, cioè il coefficiente della Superficie Agricola Utile rispetto alla superficie totale, anch’esso compreso tra 0 e 1, allora:

·        PSL = C/aA   ossia il consumo pro capite, aggiustato col coefficiente α.

·        PST = C/bS   ossia il consumo per ettaro di superficie totale, aggiustato col coefficiente β.

 

Andiamo a vedere cosa succede nella transizione da un sistema territoriale ad agricoltura tradizionale ad uno ad agricoltura moderna: il coefficiente a si riduce notevolmente, vista la diminuzione degli addetti nel settore primario, inoltre aumentano i consumi (C) e la popolazione (A) e anche la PSL aumenta. La stessa cosa non si può dire per la seconda equazione, in quanto b diminuisce appena (PNUE, 2002) e l’aumento di PST è frenato dall’aumento delle esternalità (E).

Si arriva quindi su una più precisa definizione di territorialità applicata all’agricoltura sostenibile: “L’insieme di relazioni che intercorrono tra i soggetti presenti e futuri e l’ambiente, attraverso l’agricoltura, nel tentativo di ottenere la più grande autonomia possibile, attraverso l’aumento di produttività sociale delle risorse, terra e lavoro”. Dunque si parla di un insieme di relazioni tra i soggetti e l’ambiente, ma anche di relazioni che partono dai soggetti e arrivano ai soggetti stessi, oppure partono dall’ambiente per arrivare all’ambiente stesso. Sono relazioni che creano e fanno evolvere il sistema, nel tentativo di una più grande autonomia possibile.

Come ci ricorda lo stesso Raffestin (1986): “Il paradigma della territorialità apre una serie di problematiche, dimenticate dalla maggioranza degli studi sullo sviluppo locale, nonostante che essi siano direttamente legati a dei problemi pratici molto alla moda, come lo sviluppo sostenibile e la sopravvivenza delle identità locali. Queste problematiche nascono da una contraddizione: lo sviluppo di un territorio si fonda sulla percezione che gli attori si rappresentano di quel luogo (Berque 1980), ma lo sviluppo di un territorio (che trasforma l’ecosistema) avviene anche aldilà di qualsiasi rappresentazione degli attori”.


 Figura 4.1. Evoluzione dell’agricoltura

 

Estendendo all’agricoltura quest’affermazione, ci rendiamo conto che la relazione tra uomo e ambiente non è univoca e che l’agricoltura dovrebbe essere il risultato dell’incontro dei due, in maniera biunivoca. Nei casi in cui l’uomo si è imposto sulla natura, senza “ascoltarla” (monocultura intensiva, agricoltura di speculazione, ma anche alcune forme d’agricoltura tradizionale), si sono avuti i risultati peggiori dal punto di vista della sostenibilità; ma anche dove l’ambiente si è imposto sull’uomo (pestilenze, alluvioni, malattie relative agli animali, siccità, inquinamento già presente), in parte come reazione all’azione dell’uomo, la sostenibilità si rivela più lontana. Prendiamo come esempio il recente caso d’epidemia sugli animali, la “febbre dei polli” e ci rendiamo conto che certi eventi, che alterano notevolmente l’ecosistema, avvengono aldilà di qualsiasi rappresentazione degli attori (v. sopra).

Detto questo possiamo adesso avere un’idea più chiara e schematica dell’evoluzione dell’agricoltura, alla luce della territorialità. Nella figura 4.1. ho rappresentato l’evoluzione dell’agricoltura cercando d’inserire i fattori che l’hanno creata, sviluppata e la fanno tendere verso la sostenibilità. La sostenibilità, infatti, non va ricercata soltanto nel futuro e nei nuovi progetti, ma soprattutto in una migliore conoscenza del passato, delle forme d’agricoltura tradizionale e di come esse si sono incontrate con quelle moderne, in altre parole l’agricoltura sostenibile non è una nuova forma di agricoltura, bensì un’agricoltura che si fonda su un migliore incontro tra agricoltura tradizionale e agricoltura moderna.

 

4.2. Transizione dell’agricoltura in Europa: aspetto politico

 

4.2.1. Gli anni ‘90

Il cammino dell’agricoltura negli ultimi tre decenni può dunque essere riassunto come “un percorso che prima portava l’uomo all’ambiente e ora conduce dall’ambiente all’uomo” (Grillotti, 1992). Nel 1985 in Europa si pubblicò il “Libro Verde”, nel quale l’UE riconosceva il carattere multifunzionale dell’agricoltura per la conservazione e la tutela del territorio e delle risorse agroalimentari.

Già negli anni ’90 la politica agricola europea aveva indirizzato il suo interesse dall’economia all’ecologia, dalla produzione all’ambiente. Il “Quinto programma d’azione ambientale” del 1992 e il Trattato sull’Unione Europea” considerava l’agricoltore come il “custode” dei suoli e dell’ambiente rurale. Nel rispetto delle risorse territoriali e nel tentativo di recupero ambientale, l’intervento legislativo per il settore primario dei paesi europei prevedeva:

·        la riduzione del sostegno dei prezzi e la compensazione per ettaro alle aziende produttrici;

·        l’obbligo del ritiro dei seminativi e l’indennizzo delle superfici lasciate a riposo (set-aside);

·        gli incentivi per l’eliminazione dei mezzi chimici e per la destinazione, almeno ventennale, dei terreni un tempo coltivati a scopi non agricoli (parchi, riserve, ecc.);

·        il sovvenzionamento delle spese di forestazione e il compenso annuale per il mancato guadagno;

·        il prepensionamento a 55 anni dei coltivatori disposti a lasciare i loro terreni ad uno sfruttamento non intensivo.

 

La politica del set-aside, di fatto, ha escluso le imprese che producono meno di 92 tonnellate di cereali (20 ha di superficie) dagli indennizzi. I piccoli proprietari, non potendo accedere a tale tipo di aiuti, si trovano in una posizione competitiva sfavorevole, inoltre si vedono anche congelato o addirittura ridotto il sostegno alla produzione diversificata.

In Italia la politica dei prezzi ha premiato le grandi aziende estensive altamente meccanizzate, contraddicendo nell’applicazione i principi che la muovevano. Anche sotto l’aspetto geografico è mancata una conoscenza approfondita e accurata della realtà geografica e della territorialità, necessaria al fine di permettere alle differenze geografiche di esprimere la loro sinergia.

 

4.2.2. La recente riforma della PAC (Luglio 2003)

Dopo tre negoziati ministeriali durati quindici giorni e alla conclusione di diciassette ore ininterrotte di trattative, nella notte tra mercoledì 25 e giovedì 26 giugno, i Ministri europei dell'agricoltura (con il solo parere contrario della delegazione portoghese) hanno approvato una radicale riforma della politica agricola comune (PAC), che rivoluzionerà il modo in cui l'Unione europea sostiene il settore agricolo.

Nel commentare la decisione, il commissario europeo all'agricoltura Franz Fischler ha dichiarato: "Si tratta di una decisione storica, che segna l'inizio di una nuova era. La nostra politica agricola cambierà profondamente. Oggi l'Europa si è dotata di una politica agricola nuova, moderna ed efficiente. Il grosso dei pagamenti diretti non sarà più legato alla produzione. Si tratta di una politica che contribuirà a stabilizzare i redditi degli agricoltori e permetterà loro di produrre ciò che chiede il consumatore. Dal canto loro, consumatori e contribuenti beneficeranno di una maggiore trasparenza e di un miglior rapporto qualità/prezzo. Questa riforma manda anche un segnale forte al resto del mondo”.

Ancora è presto per poter dare un parere sulla reale positività di tale riforma, soprattutto, dal punto di vista dei risultati, dunque ci limiteremo ad enunciare quello che è il nuovo programma. Gli elementi salienti della riforma della PAC sono, in breve:

·        Pagamento unico per azienda agli agricoltori dell'UE, indipendente dalla produzione (disaccoppiamento); alcuni elementi degli aiuti accoppiati possono essere mantenuti, in misura limitata, per evitare l’abbandono della produzione.

·        Pagamento condizionato (eco-condizionalità) al rispetto delle norme in materia di salvaguardia ambientale, sicurezza alimentare, sanità animale e vegetale e protezione degli animali, come pure all'obbligo di mantenere la terra in buone condizioni agronomiche ed ecologiche.

·        Potenziamento della politica di sviluppo rurale, cui verranno destinati maggiori stanziamenti, nuove misure a favore dell'ambiente, della qualità e del benessere animale, nonché per aiutare gli agricoltori ad adeguarsi alle norme di produzione UE a partire dal 2005.

·        Riduzione dei pagamenti diretti alle grandi aziende (modulazione) allo scopo di finanziare la nuova politica di sviluppo rurale.

·        Introduzione di un meccanismo di disciplina finanziaria inteso ad impedire che venga superato il bilancio agricolo fissato fino al 2013.

·        Ritocchi alla politica dei mercati agricoli:

1.      Riduzione asimmetrica dei prezzi nel settore lattiero-caseario: il prezzo d’intervento del burro sarà ridotto del 25% in quattro anni, il che rappresenta un ulteriore taglio del 10% rispetto all’Agenda 2000, mentre per il latte scremato in polvere è stata decisa una riduzione del 15% in tre anni, come convenuto in Agenda 2000.

2.      Incrementi mensili nel settore dei cereali dimezzati, con il mantenimento dell’attuale prezzo d’intervento.

3.      Riforme nei comparti riso, frumento duro, frutta in guscio, patate da fecola e foraggi essiccati.

 

Con la nuova PAC un pagamento unico per azienda sostituirà la maggior parte dei premi previsti dalle varie organizzazioni comuni di mercato; inoltre, la maggior parte dei pagamenti diretti dell'UE non sarà più legata alla produzione, ma basata su un importo riferito al periodo compreso tra il 2000 e il 2002.

Gli Stati membri che ritengono necessario ridurre al minimo il rischio di abbandono dei terreni agricoli, potranno mantenere fino al 25% degli attuali pagamenti per ettaro nel settore dei seminativi, legati alla produzione. Come alternativa, il 40% dei premi supplementari per il frumento duro può essere mantenuto legato alla produzione. Per quanto riguarda il settore delle carni bovine, gli Stati membri possono decidere di mantenere fino al 100% dell'attuale premio per le vacche nutrici e il 40% del premio alla macellazione, oppure mantenere fino al 100% del premio alla macellazione e il 75% del premio speciale per i bovini maschi. Un massimo del 50% dei premi per pecore e capre, incluso il premio supplementare per le zone svantaggiate, può rimanere legato alla produzione. Questo ci da un’idea che la Politica Agricola Comune sembra aver qualche timore in più per il passaggio dai contributi legati alla produzione a quelli all’ecologia, rispetto alla Riforma in Svizzera, il che si giustifica in parte a causa della grandezza del territorio europeo rispetto a quello svizzero e alla diversa situazione economico-finanziaria.

Gli Stati membri potranno erogare ulteriori contributi ai propri agricoltori fino a un massimo del 10% dei pagamenti unici per azienda, per incoraggiare colture specifiche che rivestono importanza per l'ambiente, la produzione di qualità e la commercializzazione.

Ma andiamo a vedere le disposizioni a favore dell’ambiente e che meritano di essere considerate un buon punto di partenza verso la sostenibilità:

·        Norme in materia di tutela ambientale, sicurezza alimentare, salute e benessere degli animali. La piena erogazione del pagamento unico per azienda e di altri pagamenti diretti sarà subordinata al rispetto di un certo numero di norme vincolanti in materia ambientale, di sicurezza alimentare e fitosanitaria e di benessere e salute degli animali. Anche la condizionalità ecologica contribuirà al mantenimento del paesaggio rurale. In caso di inadempimento dei requisiti di condizionalità ecologica, i pagamenti diretti verranno ridotti proporzionalmente al rischio o al danno causato.

·        Un nuovo sistema di "consulenza per le aziende agricole". Il sistema di consulenza aziendale sarà facoltativo per gli Stati membri fino al 2006. A partire dal 2007 gli Stati membri dovranno offrire un sistema di consulenza aziendale ai propri agricoltori. La partecipazione di quest'ultimi avverrà su base volontaria. Nel 2010, sulla scorta di una relazione della Commissione sul funzionamento del sistema, il Consiglio deciderà se rendere obbligatorio per gli agricoltori il sistema di consulenza. Questo servizio fornirà, attraverso un meccanismo di feedback, consulenza agli agricoltori su come applicare le norme e gli esempi di buone pratiche nel processo produttivo. Gli audit aziendali comporteranno inventari strutturati e regolari e la contabilità dei flussi di materiali e dei processi all'interno dell'azienda considerati importanti per determinate finalità (tutela dell'ambiente, sicurezza alimentare e benessere degli animali). Gli aiuti per gli audit aziendali verranno finanziati nel quadro delle misure di sviluppo rurale.

·        Sviluppo rurale. Le risorse UE a disposizione dello sviluppo rurale verranno significativamente aumentate e la portata del sostegno allo sviluppo rurale da parte della UE verrà ampliata mediante l'introduzione di nuove misure. Tali cambiamenti entreranno in vigore nel 2005. Spetterà agli Stati membri e alle regioni decidere se inserire queste misure nei loro programmi di sviluppo rurale.

·        Incentivi alla qualità. Verranno versati dei contributi agli agricoltori che partecipano a programmi di miglioramento della qualità dei prodotti agricoli e dei procedimenti di produzione (max 3.000 € e 5 anni). Verranno altresi incentivate le attività di informazione dei consumatori su tali prodotti fino ad un massimo del 70 % dei costi del progetto.

·        Aiuti temporanei di adeguamento alle nuove norme. Per aiutare gli agricoltori ad adeguarsi alle rigorose norme previste dalla legislazione comunitaria nei settori dell’ambiente, della sanità pubblica, animale e vegetale, è previsto un aiuto temporaneo e decrescente.

·        Benessere degli animali. Sono previste sovvenzioni a favore degli agricoltori che s’impegnano, per un periodo di almeno cinque anni, a migliorare le condizioni di vita degli animali. L’aiuto sarà proporzionale alle spese supplementari da essi sostenute (max 500 € per capo di bestiame).

·        Sostegno agli investimenti per i giovani agricoltori. Ci sarà un aumento degli aiuti ai giovani agricoltori.

 

Per finanziare le misure addizionali di sviluppo rurale saranno ridotti del 3% (per il 2005) i pagamenti diretti alle aziende di maggiori dimensioni. Tali riduzioni saliranno al 4% nel 2006, fino al 5% per il periodo 2007-2013 e saranno giustificate anche dai vantaggi che beneficiarono le imprese di una certa dimensione negli anni ’90, grazie alla politica del set-aside (cfr. per. 4.1.1.).

 

4.3. Cambiamento del sistema territoriale svizzero per la riduzione dell’impatto sull’ambiente nell’agricoltura

 

Nel 1900, il 31% delle persone attive lavoravano nel settore agricolo, oggi esse sono appena il 3% (Italia 5,5%). I contadini sono diventati una piccola minoranza in una societá di servizi. Tuttavia questa minoranza gestisce, utilizza e cura il 40% del territorio nazionale. La Svizzera è un paese alpino, il clima e la topografia favoriscono l’allevamento bovino, infatti i contadini svizzeri  producono essenzialmente latte e carne, anche se in certe regioni l’agricoltura permette di ottenere anche ottimi raccolti di cerali.

Nel 1995, la taglia media delle aziende agricole in Svizzera era di 14 ha di SAU (superficie agricola utile), rispetto ai 41 ha della Francia e ai 31 ha della Germania e ai 15 ha dell’Austria.

 

4.3.1. Aspetto politico: la riforma agraria

La politica Svizzera già da tempo riconosce il carattere multifunzionale dell’agricoltura cioè:

·        Alimentare la popolazione: quasi 2/3 delle derrate alimentari consumate sono prodotte in Svizzera.

·        Conservare la diversità biologica: numerose specie animali e vegetali vivono nell’habitat agricolo e sono quindi sotto la protezione dei contadini.

·        Mantenere una base genetica della produzione alimentare: la diversità genetica degli animali d’allevamento e delle piante coltivate costituisce una base sulla quale dipende l’esistenza dell’umanità. Le banche del seme non possono in alcun modo sostituire la selezione naturale dei contadini, come custodi della diversità delle razze e delle specie.

·        Offrire uno spazio ricreativo: un bisogno fondamentale dell’uomo moderno quello di passare del tempo in contatto con la natura. L’agricoltura mantiene e preserva i paesaggi delle praterie e dei campi in prossimità dei centri abitati.

·        Assicurare un’occupazione decentrata sul territorio e proteggere i paesaggi di montagna nelle regioni turistiche: la mucca resta il segno distintivo della Svizzera, paese di vacanza. Infatti i paesaggi alpini sono caratterizzati dall’economia rurale ed essa ben s’inserisce nell’insieme dell’attrattive turistiche delle regioni di montagna.

 

Qui, come in altri paesi (UE cfr par 3.4.), per decenni l’agricoltura è stata sostenuta da ingenti capitali statali, sotto forma di una politica dei prezzi alla produzione, ma tale politica ha mostrato sin dagli anni ‘70 i suoi limiti sia di natura ecologica, che di natura economica :

·        Costi incontrollabili: la politica dei prezzi aveva come primo effetto quello di perdita di concorrenza. I prodotti agricoli, che lo Stato acquistava dai contadini a prezzo garantito, venivano venduti sul mercato a prezzi inferiori, causando quindi delle perdite. Nel 1993, solo la valorizzazione del latte costò alle casse dello Stato 1,1 miliardi di franchi, circa 750 milioni di euro.

·        Misure protezionistiche in favore dell’agricoltura sempre meno accettate sul piano internazionale: la Svizzera, in quanto paese esportatore, è interessata alla liberalizzazione del commercio.

·        Problemi ambientali sempre più visibili nell’agricoltura: nitrati nell’acqua potabile, eutrofizzazione dei laghi, emissioni d’ammoniaca nell’aria, contribuzione al cambiamento climatico, residui di sostanze tossiche nel suolo e l’erosione sono stati la dannosa conseguenza dell’aumento delle rese in agricoltura. Inoltre il tentativo di controllare i problemi ambientali con obblighi e divieti legislativi non portò ai risultati auspicati.

·        Impoverimento della flora e fauna: il paesaggio rurale tradizionale degli anni 50 era suddiviso in maniera capillare e ricco di nicchie. Per razionalizzare la produzione, venne trasformato in un territorio agricolo che permetteva l’impiego di macchinari, ciò provocò la riduzione di ben 2/3 della superficie di ambienti naturali ecologicamente in equilibrio.

·        Grande differenza di prezzo rispetto all’estero: dal 30 al 60% in più, ripetto ai prezzi europei, il che ha creato il fenomeno del “turismo della spesa”, con un impatto di 2 miliardi di franchi svizzeri, pari ad 1/10 delle spese complessive per le derrate alimentari.

·        Proliferazione di regole e leggi nel settore alimentare: la politica dei prezzi alla produzione provocò una moltiplicazione eccessiva dei regolamenti e degli ordinamenti statali in tutto il settore agroalimentare.

 

Conseguentemente il 9 Giugno 1996 la popolazione svizzera ha approvato, con una maggioranza del 77,6%, un nuovo articolo costituzionale sull’agricoltura, che prevede, per l’agricoltura, il concetto di multifunzionalità per uno sviluppo sostenibile (v. sopra). La nuova politica agricola si basa su due punti: da una parte una produzione agricola sostenibile rispondente all'esigenze del mercato e dall’altra il mantenimento e la conservazione del paesaggio e delle risorse naturali a titolo di patrimonio pubblico.

Per ottenere questo obiettivo inizialmente si sono soppresse le politiche dei prezzi, riducendole del 20% rispetto ai primi anni 90. Ciò ha favorito i consumatori, ma ha ridotto drasticamente il reddito dei contadini. Tuttavia per compensare (per lo meno in parte) tali perdite sono stati aumentati i pagamenti diretti, legati a determinate prestazioni ecologiche. Queste misure hanno permesso di migliorare significativamente gli standard ambientali dell’agricoltura svizzera.

La seconda tappa consiste nel mantenere tali standard, migliorando la competitività dell’agricoltura. Sicuramente la riduzione degli interventi statali ha dato maggior libertà di movimento ai contadini, ai quali è stato accordato lo statuto di imprenditori indipendenti.

Quindi, il passaggio dalla politica dei prezzi alla produzione (incentivi indiretti e diretti) agli incentivi diretti, condizionati al rispetto di certi parametri ecologici (eco-condizionalità, cfr nuova PAC par 4.2.2.), ha aperto un nuovo mercato e una nuova opportunità, quello dello standard ecologico. Lo standard ecologico è il nuovo criterio con il quale è possibile ricevere gli incentivi.

Oggi, sono sempre più numerosi i consumatori che ricercano la qualità, una qualità intesa in senso pieno, diretta oltre che al gusto e alla genuinità, anche al rispetto della natura e degli animali. In quest’ottica, una clientela sempre crescente è disposta a pagare un prezzo maggiore per la qualità. Affinchè i beni prodotti in modo sostenibile possano trovare degli acquirenti sul mercato, devono essere riconoscibili e rintracciabili, quindi un punto centrale della riforma agraria (conseguente al voto del 9 Giugno 1996) è una regolamentazione chiara sulla caratterizzazione dei prodotti. Le denominazioni di origine e le informazioni sui metodi di produzione sono protette e la legge garantisce la certificazione e il controllo.

La riforma mantiene quindi i pagamenti diretti, in quanto nel commercio agrario non vige alcuna verità dei costi. I pagamenti vengono riorientati non più alla massimizzazione della produzione, ma alla riduzione delle esternalità negative, condizione necessaria per massimizzare l’efficienza sociale. In altri termini se i reali costi sociali (cioè quelli che comprendono le esternalità negative) fossero calcolati nel prezzo di vendita, i prodotti Bio diventerebbero molto più competitivi o addiririttura meno costosi.

La riforma della politica agricola si fonda sulla costituzione del ruolo multifunzionale dell’agricoltura, essa ha impresso un nuovo orientamento giuridico agli obiettivi della Confederazione in materia di politica dei redditi. Conformemente all’art. 5 L agr: “I provvedimenti di politica agricola hanno lo scopo di permettere alle aziende con una gestione ecologicamente sostenibile e redditizia di conseguire in media su vari anni redditi comparabili a quelli della rimanente popolazione attiva della stessa regione. I nuovi cardini della politica reddituale sostituiscono il principio del salario paritetico ancorato alla vecchia legislazione (OFAG, 2001)”.

 

4.3.2. Aspetto economico. I prodotti biologici

Uno sforzo e una scommessa sono stati compiuti anche nella commercializzazione, se si pensa che il gruppo COOP Svizzero (fatturato di 11 miliardi di franchi,  1000 punti vendita, secondo distributore in Svizzera e primo per i prodotti Bio) realizza, grazie ad una politica di promozione e vendita dei prodotti Bio, un tasso di crescita annuo del 40 % in questo settore. Tra il 1993 e il 1998 COOP ha decuplicato le sue vendite di prodotti Bio. Già negli anni ’80, Felix Wehrle (responsabile del progetto Bio NATURAplan presso COOP) rifletteva sulle possibiltà della commercializzazione su larga scala dei prodotti Bio. Ancora nel 1993, quando il progetto NATURAplan è stato lanciato, lo scetticismo era forte e i contadini che si dirigevano verso la produzione biologica guadagnavano meno degli altri. Tuttavia, tra il 1993 e il 1998, COOP ha decuplicato le sue vendite di prodotti Bio. Nel 1998 la cifra d'affari dei prodotti NATURAplan ha superato i 320 milioni di franchi (210 milioni di euro), registrando un aumento del 45% rispetto all'esercizio precedente. Inoltre COOP controlla direttamente la qualità dei prodotti provenienti dall’agricoltura biologica e dall’allevamento. La gamma NATURAplan si compone esclusivamente di prodotti sottoposti alle severissime norme di Bio Suisse. Il latte Bio venduto da COOP occupa il 30 % del volume complessivo e 2 uova vendute su 5 portano il label NATURAplan[11]. Quasi tutti i prodotti alimentari COOP a breve conservazione rispondono ai criteri della produzione integrata.

Il mercato svizzero della grande distribuzione è oligopolizzato da due cooperative (Migros e COOP) e anche Migros ha sviluppato una buona commercializzazione di prodotti biologici e a produzione integrata. La volontà di passare ad un’agricoltura ecologica si fa sentire anche nella grande distribuzione, il che ci dà la conferma della sua economicità.

 

4.3.3. Aspetto produttivo: una produzione rispettosa dell’ambiente

In Svizzera l’ordinanza sull’agricoltura biologica è in vigore dal 1° gennaio 1998. Essa fissa i criteri che devono essere soddisfatti affinchè un prodotto possa essere definito Bio. Questi rigorosi parametri si applicano alla produzione, alla trasformazione, alla definizione e al controllo dei prodotti, conformemente ai  termini stessi dell’ordinanza: “Sono presi in considerazione cicli e processi naturali, è evitata l’utilizzazione di materie ausiliare e di ingredienti chimico-sintetici, si rinuncia all'utilizzazione di organismi geneticamente modificati e dei loro derivati, i prodotti non sono sottoposti a radiazioni ionizzanti e non vengono utilizzati prodotti irradiati” (cfr. Articolo 3 dell'ordinanza del 22 settembre 1997 sull'agricoltura biologica e la designazione dei prodotti vegetali e delle derrate alimentari biologiche)[12]. Tale ordinanza elenca i prodotti fitosanitari e i concimi chimici, oltre che i prodotti di lavorazione ammessi; inoltre è presente un elenco dei paesi importatori e per ogni paese i prodotti ammessi al rango di prodotti biologici per la Svizzera.

Dal 1999 ogni azienda che vuole ottenere pagamenti diretti deve fornire la prova di rispettare certe esigenze ecologiche richieste dallo Stato. Queste esigenze corrispondono ampiamente agli standard della produzione integrata (PI):

·        Detenzione di animali da reddito conforme alla specie ammesse dalla legge sulla protezione degli animali.

·        Bilancio di concimazione equilibrato, il surplus deve potere essere assorbito dal raccolto.

·        Quota adeguata di superfici di compensazione ecologica, almeno il 7 % (set-aside).

·        Avvicendamento disciplinato delle colture, cioè alternanza ottimale delle piante nella campicoltura e orticoltura, per la fertilità del suolo e la salute delle piante.

·        Protezione adeguata del suolo, riducendo il pericolo di erosione e del carico di sostanze chimiche.

·        Utilizzazione mirata dei prodotti per il trattamento delle piante; i parassiti vengono tenuti a bada dai loro nemici naturali, che devono quindi essere messi in condizione di esercitare la loro funzione.

 

Il risultato di questa politica è stato che, se nel 1993 soltanto il 14% della aziende agricole svizzere coltivava la sua superficie agricola secondo i metodi della produzione integrata, oggi, praticamente tutti contadini dimostrano di rispettare i parametri ecologici della produzione integrate (v. tab 6 in appendice), poichè pochi possono permettersi di rinunciare ai pagamenti diretti. Una espressione tipica tra gli agricoltori è quella di “coltivare le sovvenzioni”. Infatti, nonostante la riforma agraria, i sussidi in Svizzera sono sempre molto alti, se si pensa che essi arrivano al 35 % rispetto alla produzione agricola. Una quota scandalosamente elevata che va contro tutte le leggi della competitività e del libero mercato, ma che paraddossalmente consente un’allocazione migliore delle risorse (cfr. par 4.6.) se trattasi di sovvenzioni dirette al rispetto dei parametri ecologici. Nonostante che le sovvenzioni siano in diminuzione, rimangono pur sempre molto elevate rispetto agli altri paesi.

Il rapido passaggio verso la produzione integrata e biologica è avvenuto grazie ai massicci finanziamenti indirizzati a questo cambiamento. La riforma agraria sostanzialmente, ha mutato i criteri per ricevere i contributi statali. Nei prossimi paragrafi, andremo a vedere sia i pagamenti diretti allo standard ecologico (par 4.4.), sia la netta diminuzione di quelli indiretti (par 4.5.).

Sulla stessa dinamica “eco-protezionistica”, i contadini possono ricevere pagamenti diretti in base al programma SRPA (Sortie Régulières en plain air[13]), che consiste nel portare in estate i propri animali al pascolo e nel garantire almeno 13 uscite mensili in inverno. Esiste ancora il programma SST[14], che promuove sistemi di stabulazione particolarmente rispettosi degli animali: essi vengono tenuti in gruppi, possono muoversi conformemente alle esigenze della loro specie, dispongono di luoghi di riposo e di possibilità di occupazione (v. tab 5 in appendice).

Altri contributi federali in favore dell’agricoltura si trovano nella creazione da parte dei contadini, di superfici di compensazione ecologica, nelle quali troviamo anche delle nicchie ricchissime di specie nel territorio agricolo (set-aside). Tali superfici sono costituite da prati sfruttati in modo estensivo, arboreti da frutto ad alto fusto, maggesi fioriti, siepi e fasce di colture estensive in campicoltura, che non possono essere concimate e sulle quali le malerbe sono ben accette. Tali superfici di compensazione hanno già dato dei buoni risultati, in quanto si è potuto reinserire nel territorio specie scomparse o a rischio (v. progetto “starna” a cura dell’UFAG, tab 10 in appendice)[15].         

Addirittura, esistono delle prestazioni supplementari, non riconosciute ricorrendo ai fondi agricoli, che consistono nel falciare, in maniera rispettosa dell’ambiente, le torbiere basse e i prati secchi. Nel 1999 la Confederazione ha versato ai contadini 11 milioni di franchi per questi lavori di manutenzione. Un contributo analogo è stato versato anche dai singoli Cantoni.

In Svizzera, dunque, dal 1993 al 1999 la percentuale delle aziende che si dedicano alla coltivazione biologica è quadruplicata (1999). Nel 1998 era il 7%, oggi (marzo 2003) tale quota è arrivata a 11% degli agrocoltori, pari a più di 1/10 della SAU (Rapporto Agricolo 2003).

Fare tutto il possibile per salvaguardare l’ecosistema suolo ed evitare tutto quello che può danneggiarlo: questi i principi dell’agricoltura biologica. Se generalmente i fattori che stimolano lo sviluppo dell’agricoltura biologica sono legati a motivazioni di carattere privatistico (migliore qualità del prodotto per i consumatori ed economicità per la grande distribuzione e per i contadini), qui ci troviamo di fronte ad obiettivi socio-ecologici (riguardanti i benefici sull’intero ecososistema) che, tramite la riforma, completano i primi.

Ma riprendiamo in esame i punti chiave dell’agricoltura biologica:

·        Cicli chiusi: i campi devono essere fertilizzati con concime di fattoria prodotto dagli animali e il bestiame deve essere nutrito con foraggio coltivato sui campi della fattoria. Ci vogliono quindi aziende poliedriche con animali e campi da coltivare.

·        Divieto di concimi minerali e di pesticidi artificiali: le malattie delle piante devono essere prevenute attraverso la selezione delle varietà e la rotazione delle colture, le erbe infestanti devono essere estirpate meccanicamente. Si concima esclusivamente con composto e concime di fattoria.

·        Detenzione di animali conforme alla specie: le direttive sono più severe delle leggi sulla protezione degli animali.

·        Rinuncia ad organismi geneticamente modificati (OGM): le tecnologie ad alto rischio per la salute dell’uomo e a forte impatto ambientale, non vengono impiegate nella coltivazione biologica.

 

“Bio Suisse”[16], l’associazione di riferimento dei contadini che si dedicano all’agricoltura biologica, disciplina il controllo e la dichiarazione conformemente all’ordinanza federale sull’agricoltura biologica.

La riforma agraria ha già dato i primi frutti (cfr. par 5.3.2.) ed è in linea con gli altri paesi in transizione verso l’agricoltura sostenibile:

·        Il consumo di concime diminuisce: l’impiego di concime minerale è in forte diminuzione. Questa tendenza è particolarmente marcata per quanto riguarda i concimi contenenti fosforo: dalla metà degli anni ’80 il consumo si è più che dimezzato (v. tab 2 e 3 in appendice).

·        Le aziende hanno dovuto ridurre il loro effettivo di animali da reddito: gli oneri ecologici hanno costretto le aziende agricole a ridurre il numero dei bovini e dei suini. La diminuzione del quantitativo di concime di fattoria si ripercuote positivamente sui corsi d’acqua.

·        Il consumo dei prodotti fotisanitari diminuisce: il senso di responsabilità dei contadini svizzeri nei confronti dei prodotti per il trattamento delle piante è sensibilmente aumentato, comportando una riduzione del loro impiego.

·        La contrazione delle superfici naturali nel paesaggio è stata interrotta: nelle regioni di pianura, nel 1998 sono stati dichiarati 42.500 ettari di superfici di compensazione ecologica, che corrispondono circa al 6% dell’intero paesaggio agricolo. Per bloccare la diminuzione delle specie nel territorio agricolo, sono necessari almeno 65.000 ettari, obiettivo che dovrebbe essere raggiunto entro un paio di anni, quando ogni azienda agricola dichiarerà in media almeno il 7% di superficie utile sotto forma di compensazione ecologica (v. fig 9 e tab 10 in appendice).

·        Le condizioni di detenzione di numerosi animali da reddito sono migliorate: nel 1998, il 40% dei bovini delle fattorie svizzere viveva in condizioni conformi alla propria specie, secondo quanto stabilito dai programmi URA o SSRA (v. tab 7 in appendice).

·        La Svizzera rispetta gli accordi commerciali internazionali: riduzione del 20% del sostegno federale riferito ai prodotti dell’agricoltura, riduzione del 36% delle sovvenzioni all’esportazione entro l’anno 2000. Questi gli impegni contratti dalla Svizzera nei confronti dell’Organizzazione mondiale del commercio.

·        Il reddito dei contadini si è stabilizzato: nonostante la sostanziale riduzione dei prezzi alla produzione, il reddito dei contadini ha potuto essere mantenuto, anche se ad un livello più modesto. In rapporto con il resto della popolazione, nel 1998 il reddito rurale per azienda (senza guadagno accessorio) ammontava a 73.000 franchi (circa 50.000 euro) per le regioni di pianura ed a 50.000 franchi (circa 33.000 euro) per quelle di montagna.

 

4.4. L’agricoltura svizzera: l’importanza del riorientamento degli incentivi diretti (eco-condizionalità).

 

4.4.1. Aspetto ambientale

La Svizzera, come l’Europa, dimostra quindi di essersi resa conto degli errori commessi in passato e d’impegnarsi per trasformarli in opportunità per un’agricoltura sostenibile. Il cambiamento di rotta è già avvenuto e gli sforzi sostenuti in questa nuova direzione hanno coinvolto tutta la popolazione, che con il referendum ha scelto un’agricoltura più autonoma dai capitali statali. La Svizzera si sta dirigendo verso un’agricoltura sostenibile, nonostante che la strada da fare sia ancora molta.

Contraddittoriamente, ciò che ha permesso alla Svizzera questo rapido passaggio sono stati appunto gli ingenti capitali statali che proteggono l’agricoltura. Ed è proprio da questi capitali che si cerca di ridurre la dipendenza. Si è cercato, interpretando la volontà popolare, di indirizzare tali capitali verso un’agricoltura ecologicamente migliore.

Ci sarebbe da chiedersi se fosse stato possibile invertire così repentinamente la rotta senza la presenza delle sovvenzioni alla produzione trasformate in sovvenzioni all’ ecologia. Teniamo presente che le sovvenzioni all’agricoltura in Svizzera sono le più alte tra tutti i paesi industrializzati, l’obiettivo è quello di ridurle al minimo, ma inizialmente esse sono state necessarie per indurre questa inversione di rotta.

Le aziende che veramente si impegnano verso un’agricoltura più rispettosa dell’ambiente sono quelle che ricevono i pagamenti diretti e le sovvenzioni maggiori. Ogni sforzo aziendale verso una riduzione dell’impatto ambientale è premiato con pagamenti diretti maggiori. Questo spiega anche la ragione per la quale adesso le aziende che si dirigono verso l’agricoltura sostenibile hanno un reddito maggiore rispetto alle altre, o almeno si spiega una parte di tale ragione. Le aziende che scelgono l’agricoltura biologica ricevono un notevole aiuto da parte della Confederazione e dei singoli Cantoni.

Se questo a prima vista può sembrare una forma di favoreggiamento o di concorrenza sleale a favore delle aziende rispettose dell’ambiente, in realtà è semplicemente il risultato dell’internalizzazione delle esternalità negative nell’agricoltura svizzera, che si traduce in una riduzione dei costi  per la società.

Una pubblicazione[17] dell'Ufficio Federale di ricerca in economia e tecnologia agricola, riguardante i costi macroeconomici delle misure ecologiche finanziate dalla confederazione e dai Cantoni, evidenzia il fatto che la maggior parte delle prestazioni ecologiche in agricoltura siano sovrafinanziate. Questo è vero se il nostro spettro d'indagine rimane confinato ad una logica economica privatistica, ma se lo estendiamo ad un piano socio-economico ci rendiamo conto che esse sono necessarie a dare una priorità in termini di redditività alle forme agricole più rispettose dell’ambiente (cfr par 5.2.).

La forza della riforma dell’agricoltura è la presa di coscenza collettiva del reale impatto dell'agricoltura convenzionale sia in qualità di consumatori e produttori (aspetto privatistico), sia in qualità di esseri umani e di cittadini (aspetto sociale).

L’interesse, dei consumatori, è quello di acquistare prodotti genuini, nei quali non siano presenti residui di pesticidi o erbicidi, prodotti non provenienti da un’alterazione genetica, prodotti non gonfiati dagli ormoni, ovvero semplicemente dei prodotti di qualità. Questo interesse, di natura egoistica, non basta a dirigere l’economia verso un nuovo equilibrio, anche se sicuramente ha la capacità di stimolare il mercato dell`agricoltura biologica e quella rispettosa dell’ambiente. L’attenzione del consumatore e i coraggiosi impegni presi, talvolta, da alcuni contadini spinti da ragioni di carattere filosofico o pionieristico, infatti, non sono sufficienti per indirizzare l’agricoltura verso la sostenibilità. È necessario che la popolazione percepisca l’interesse sociale di tale cambiamento, cioè abbia coscienza delle esternalità positive che derivano dall’agricoltura biologica o si renda conto delle esternalità negative prodotte dall’agricoltura convenzionale. L’agricoltura rispettosa dell’ambiente non fa bene soltanto all’ecosistema umano, ma soprattuto fa bene all’ecosistema ambiente.

L’impatto ambientale dell’agricoltura biologica è 6-7 volte minore rispetto all’agricoltura convenzionale. Il costo dell’agricoltura convenzionale si presenta anche sotto forma di esternalità negative sopportate dall’ambiente e dalla società: residui tossici negli alimenti, trattamento talvolta disumano degli animali d'allevamento, inquinamento delle falde acquifere, erosione, maggiore emissione dei gas responsabili dell'effetto serra, incertezza del reale impatto degli OGM sulla salute dell’uomo, estinzione di alcune specie di animali con relativa alterazione della catena alimentare, contribuzione al fenomeno della “mucillagine” nei mari, diminuzione delle varietà da coltivare, bilancio energetico squilibrato, residui tossici nel terreno e a migliaia di km di distanza (DDT in Antartide), lisciviazione, acidificazione, perdita di fertilità, distorsione dei mercati, oligopolizzazione dell’offerta, ect…. Questi sono tutti i costi che l’ambiente e la società devono sopportare sotto forma di esternalità negative, che il costo di produzione per i coltivatori non evidenzia.

Nel prezzo di acquisto sono presenti il costo delle materie prime (semi, pesticidi, concimi, ect…), il costo della manodopera e altri costi di natura fondiaria, ma non sono presenti i costi riguardanti gli effetti sull’ecosistema dati dai pesticidi, dai concimi minerali e dall’eccessiva meccanizzazione. In altri termini, il mercato non riesce ad esprimere tutti i costi dell'agricoltura convenzionale, dunque è un mercato inefficiente. Il mercato trova il suo equilibrio esclusivamente tra i due opposti interessi privatistici, quello dei produttori e quello dei consumatori, ma non tiene in considerazione l'interesse sociale.

L’agricoltura biologica (o quella a produzione integrata), invece, presenta una composizione del prezzo di vendita più trasparente e diretta, le esternalità negative sono fortemente ridotte, inoltre presenta una struttura dei costi nella quale la voce manodopera ha un margine maggiore ed è invece molto ridotta quella per concimi chimici e quasi assente quella dei pesticidi e questo permette di giustificare la presenza di sovvenzioni (v. Tab..

Gli incentivi diretti all’ecologia, quindi, stimolano, in linea di principio, la riduzione dell’impatto ambientale dell’agricoltura, rispondendo al primo criterio della sosteniblità, l’aspetto ambientale. Nei prossimi capitoli vedremo se anche i dati confermano ciò.

 

4.4.2. Aspetto socio-economico

Analizzando la questione da un punto di vista di allocazione del capitale, l’agricoltura biologica genera una migliore redistribuzione del reddito, essa genera minori esternalità negative ed impiega una quota maggiore di manodopera. Attraverso un approccio marginalista, basato sul modello neoclassico, andremo a vedere tali dinamiche.

Il prezzo di equilibrio si trova ad un valore più alto, ma ciò non riduce il benessere sociale, anzi permette una massimizzazione di tale benessere. Sul nuovo punto di equilibrio formato da un prezzo più alto, da una minore quantità scambiata, il benessere privato di consumatori e produttori viene ridotto, ma tale riduzione è più che compensata dall’aumento del benessere sociale. Guardando la fig. 4.2., individuiamo con D la curva di domanda di prodotti provenienti dall’agricoltura, che s’interseca con la curva di offerta S, nel  punto di equilibrio A (cfr. par 5.2.4.). In tale punto il volume scambiato è pari a Q2 e il prezzo di vendita è pari a P. Presupponendo l’esistenza di un mercato concorrenziale sappiamo che la curva di offerta S è anche la curva dei costi marginali. In tale punto il surplus dei consumatori è pari al triangolo BPA e il surplus dei produttori è pari al triangolo POA (con O che indica l’origine degli assi), cioè il benessere privato è pari al triangolo BOA. Questo potrebbe essere un punto di allocazione efficiente, se non fosse per l’esistenza dei costi sociali, ovvero per l’esistenza delle esternalità negative.

La curva T è la risultante dei costi marginali privati della produzione più i costi marginali del danno ambientale (esternalità negative dovute all'agricoltura convenzionale), cioè indica i costi marginali sociali. Introducendo la curva T notiamo che i costi sociali sono in realtà più alti di quanto credevamo. Infatti la curva S dei costi marginali privati della produzione non considerava il reale impatto che l’agricoltura convenzionale ha sull’ambiente e sulla società. La curva T propone una nuova realtà degli eventi, cioè l’esistenza di esternalità negative pari all’area HOA. Quello che avveniva prima della riforma faceva tendere il mercato, grazie anche agli incentivi alla produzione, verso un equilibrio socialmente inefficiente. Con la riforma, attraverso l’utilizzo mirato degli incentivi ci si sta dirigendo verso il punto di equilibrio C. Infatti i produttori sono incentivati dallo Stato a produrre in modo ecologico (v. sopra). Cioè mentre prima gli incentivi alla produzione facevano tendere il punto di equilibrio verso destra e in basso, adesso con gli incentivi alla sostenibilità la tendenza è verso l’alto e verso sinistra. In altri termini gli incentivi alla produzione creavano un aumento dei costi sociali.

Il punto C è un punto socialmente efficiente, cioè un punto nel quale è massimizzato il benesserere sociale, un punto di ottimo paretiano da un punto di vista sociale.

Un’agricoltura rispettosa dell’ambiente ha dei costi marginali più alti, dati in primo luogo dalla presenza più marcata del costo del lavoro. La curva T infatti indica anche la curva dei costi marginali di un’ideale forma di agricoltura che non ha nessun impatto negativo sull’ambiente e sulla società. La forma di agricoltura che più si avvicina oggi a tale ipotesi è l’agricoltura biodinamica e in generale l’agricoltura biologica, sebbene un'impatto negativo sull'ambiente si abbia comunque. Anche molte forme di agricoltura rurale hanno un impatto minimo sull'ambiente.

 

Figura 4.2. Efficienza sociale dell’agricoltura

Fonte: mia rielaborazione del MUSU, Introduzione all’economia dell’ambiente, Il Mulino

 

Il punto C rappresenta l’equilibrio sul mercato dei beni di una produzione data da un’agricoltura priva di esternalità negative e l’agricoltura biologica è quella che più si avvicina a tale putno. Diciamo, per semplicità, che nel caso di un’agricoltura convenzionale l’equilibrio si trova nel punto A e nel caso di un’agricoltura biologica (o biodinamica) l’equilibrio si trova nel punto C (in realtà potremo parlare di un intorno destro del punto C). 

Il nuovo punto C è un punto di equilibrio nel quale la quantità scambiata è pari a Q1, una quantità minore rispetto al punto A.

Nel punto C il prezzo unitario di vendita G è più alto di P, dunque il mercato ha meno bisogno di politiche per sostenerlo, in quanto il prezzo tende a stabilizzarsi su un livello più alto dell’equilibrio dato dall’agricoltura convenzionale.

Nel punto C il surplus dei consumatori si riduce all'area BCG, così come il surplus dei produttori diventa il triangolo GOC. Tuttavia il valore espresso dal rettangolo GCEF, che rappresenta l'entità dei pagamenti diretti allo standard ecologico, viene versato direttamente ai produttori, ciò presuppone quindi una perdita di benessere esclusivamente dei consumatori, controbilanciata parzialmente con l'aumento della qualità del prodotto e con un generale miglioramento ambientale. Se da una parte i produttori sono compensati della loro riduzione di benessere, dall’altra i consumatori si vedono ridurre notevolmente il loro benefici, essi sono costretti a pagare più cara la stessa quantità di alimenti e solo parzialmente l'aumento di qualità del prodotto e dell'ambiente controbilancia la diminuzione di benessere. I produttori inoltre hanno dei risparmi dovuti anche alla riduzione dei costi d’esercizio relativi all’acquisto di pesticidi, energia fossile e concimi chimici (cfr. par. 4.6.2).

Dunque i benefici netti privati si riducono dell’area EAC. Con la riforma i consumatori si vedono ridurre in modo abbastanza sostanziale il loro potere d'acquisto. Per  rendersi conto di ciò basta fare un giro nei supermercati svizzeri e controllare il prezzo elevatissimo dei prodotti biologici.

Nel nuovo punto di equilibrio C si riduce il benessere privato, ma non il benessere sociale. I costi ambientali hanno una riduzione pari a EAHC e la riduzione dei costi ambientali è maggiore della riduzione dei benefici netti privati. Vi è quindi una riduzione netta di costi sociali e un aumento di benessere pari a HCA. Questo dimostra il fatto che il punto C è un punto socialmente più efficiente del punto A, cioè l’equilibrio di un’agricolura biologica tende verso un punto socialmente più efficiente dell’equilibrio dato dall’agricoltura convenzionale. Le distorsioni del mercato causate dagli incentivi alla produzione sembrano ridursi con la loro sostituzione con gli incentivi condizionati agli standard ecologici (eco-condizionalità). Ogni sforzo andato a segno nella direzione di un’agricoltura più ecologica, crea quindi un aumento di benessere.

Gli incentivi diretti allo standard ecologico fanno quindi tendere l’agricoltura svizzera verso la sosteniblità.

Ovviamente se non ci sono dubbi circa l’aumento di efficienza sociale al tendere dell’agricoltura verso la sostenibilità, qualche perplessità sorge nel capire quale sia il sistema migliore e più efficiente per arrivarvi. Per ora la riforma nell’agricoltura in Svizzera necessita di ingenti incentivi per indurre questo cambiamento e sappiamo che gli incentivi posso essere distorsivi.

 

4.4.3. Aspetto sociale

Ciò che differenzia un'impresa convenzionale da una biologica, non è solo la produzione, ma anche l'allocazione dei fattori produttivi. Nell'impresa biologica il fattore umano ha una proporzione maggiore e sono esclusi i costi di pesticidi, mentre i costi per i concimi minerali e per l’energia fossile sono notevolmente ridotti (34-52 %, cfr par 5.1.3.).

Se guardiamo di nuovo la fig. 2.4.,  nell'area OCE  è contenuto anche il costo della manodopera supplettiva necessaria per produrre in maniera biologica. Quest'ultima affermazione è un'arrotondamento per eccesso della realtà, che vedremo è diversa. Per ora ci basta sapere che tale affermazione è valida per le imprese agricole collocate in pianura, i dati parlano di un fattore di aumento dei salariati esterni al nucleo familiare nell'ordine del 50% (cfr. par. 5.1.3.).

Nell’aria OCE è contenuto anche il costo supplettivo dovuto alla maggior manodopera, nel caso che tutte le imprese si convertano al biologico. Le sovvenzioni sono indirizzate sia all’ecologia, sia all'occupazione, in quanto stimolando la produzione biologica stimolano l'occupazione, riducendo ulteriorimente la distorsività delle sovvenzioni stesse. Le sovvenzioni alla sostenibilità non sono distorsive e al contrario hanno un triplo dividendo:

· riducono l'inquinamento ;

· stimolano l'occupazione;

· migliorano l'efficienza economica.

 

I dati daranno conferma di ciò (cfr. cap 5).

 

 

 

 

 

 

4.5. L’agricoltura svizzera: importanza della riduzione degli incentivi indiretti

 

4.5.1. Incentivi indiretti: inefficienza e inefficacia

Riprendendo un precedente discorso lasciato in sospeso, dovremo adesso considerare il lato della domanda, il lato del consumo. Se guardiamo la realtà notiamo che ciò che favorisce l'inquinamento in agricolutra, non è di esclusiva responsabilità dei produttori, ma anche dei consumatori. Per essere più precisi la politica agricola alla produzione e allo smercio (incentivi indiretti) si traduce in un allargamento della domanda per garantire ai prezzi di rimanere a determinati livelli e garantire lo smercio dei prodotti. Ma questo allargamento della domanda è finanziato dalla Confederazione. Per questo la nuova riforma agraria prevede che la spesa della Confederazione, destinata alla produzione e allo smercio, debba essere ridotta di un terzo rispetto al livello del 1998 ovvero entro 5 anni dalla sua entrata in vigore. Nel 2003 è possibile destinare soltanto 800 milioni di franchi a favore di provvedimenti in tale ambito, mentre nel 2001 per la promozione della produzione e dello smercio sono stati destinati circa 902 milioni di franchi. Rispetto all'anno precedente si è registrata una diminuzione delle uscite di circa 53 milioni di franchi (-6%). Ciò rappresenta un ulteriore passo verso lo smantellamento dei mezzi finanziari destinati alla promozione della produzione e dello smercio conformemente all'art. 187 capoverso 12 L agr.

Dalla tabella 4.3. appare evidente l'importanza del settore lattiero (che prenderemo come esempio), in quanto riceve il 70 % della spesa. Nel corso del 2001 le uscite della Confederazione a favore dell'economia lattiera sono state ulteriormente ridotte (-7 %). Per il sostegno del prezzo nel settore lattiero sono stati stanziati complessivamente 666,1 milioni di franchi, di cui 486,1 a favore del settore caseario (73 %), 104,3 milioni di franchi per il burro (16 %), 69 milioni di franchi per il latte in polvere (10 %) e 6,7 milioni di franchi (1%) per le spese amministrative. Questo per dire che è ancora forte la partecipazione della Confederazione al sostegno della domanda di prodotti agricoli e la competitività dell’economia lattiera svizzera ne è fortemente influenzata.

Nel corso dell’ultimo ventennio la produttività della produzione lattiera non ha potuto essere migliorata, il che mostra i limiti delle sovvenzioni alla produzione. La ripartizione individuale dei contingenti lattieri e il vincolo alla superficie, applicato fino al 1° maggio 1999, non hanno contribuito a migliorare il reddito dei produttori lattieri, malgrado prezzi del latte più elevati, in quanto hanno ostacolato lo sviluppo di strutture più efficienti. C’è un’inefficacia di fondo tra gli obiettivi alla base degli incentivi indiretti e i risultati ottenuti, almeno per il mercato lattiero e caseario.

 

Tabella 4.3. Uscite della confederazione per la produzione e lo smercio, in agricoltura.


Fonte: UFAG, Rapporto agricolo 2002; Conto dello Stato.[18]

 

Nonostante i mezzi usati dalla Confederazione per mantenere il prezzo del latte ad un determinato livello, che garantisse un reddito comparabile a quello della rimanente popolazione attiva, il risultato è stato contemporaneamente una perdita di concorrenza e  una produttività stazionaria. Gli aiuti hanno ostacolato il naturale e continuo assestamento del mercato.

Quindi se non ci sono dubbi sul fatto che i redditi degli agricoltori e l’esportazione debbano essere sostenuti, tuttavia ci sono dubbi sui mezzi utilizzati per tale fine. Cioè mantenere prezzi e produzione artificialmente elevati crea un effetto perverso, se allo stesso tempo vogliamo aumentare la nostra concorrenza all’esterno del paese.

 

4.5.2. L’aspetto economico-ambientale

Il grafico che esprime la riduzione degli incentivi indiretti è quello della figura 4.4., nella quale riprendiamo le nostre 2 curve di domanda D e di offerta S di prodotti agricoli.

Il meccanismo è tanto più vero per il latte (quindi per i prodotti caseari) che per gli altri prodotti agricoli, in quanto abbiamo visto che riceve il 70 % degli aiuti alla produzione e allo smercio. In ogni modo parliamo di un mercato di agricoltura convenzionale, dove non c’è stata internalizzazione delle esternalità negative e dove la domanda è sostenuta dagli incentivi indiretti.

In questo mercato la curva dell’offerta rimane S, mentre la curva della domanda, tolti gli incentivi indiretti, diventa D-I. Si pone come ipotesi che D-(D-I) = 0 per Q = 0, cioè il prezzo = B e che max D-(D-I) per Q max. In altri termini I = 0 per Q = 0 e max I per max Q, cioè gli incentivi sono proporzionali alla quantità venduta. Gli interventi della Confederazione con un po’ di semplificazione si possono tradurre in un allargamento del surplus della domanda totale pari all’area BEA. La curva D-I rappresenta quindi la curva di domanda esclusivamente dei consumatori, mentre D è la curva di domanda comprensiva della spesa pubblica per la promozione della produzione e lo smercio (incentivi indiretti).

È interessante notare quello che succede al surplus dei consumatori, che con gli incentivi diretti (cfr. par. 4.4.3.) avevamo visto diminuire (fig.5.4., area BPA). Se invece separiamo appunto il surplus dei consumatori dalla spesa della Confederazione per la promozione della produzione e dello smercio, scopriamo che il vero surplus dei consumatori (rimanendo sempre nel punto di equilibrio A) è BPR. Separando la spesa della Confederazione dalla spesa dei consumatori, troviamo il reale surplus di quest'ultimi, che è ridotto del triangolo BRA.

L'area PFER rappresenta la perdita di benessere dei consumatori causata dall’effetto distorsivo degli incentivi indiretti. Quest’ultimi agiscono sul mercato alzando il prezzo, aumentando la quantità prodotta e smerciata e riducendo il reale benessere dei consumatori. La quantità scambiata con i consumatori si ruduce e il prezzo aumenta, essi sono costretti a ridurre il loro volume d’acquisto da Q1 a Q3, nonostante che sul mercato la quantità scambiata totale aumenti fino a Q2. Inoltre il prezzo P è superiore a F. La diminuzione della quantità scambiata sarà tanto maggiore quanto più elastica è la curva di domanda, e viceversa l’aumento di prezzo sarà tanto più alto quanto più rigida è la curva di domanda.

I produttori, invece, hanno un beneficio dall’introduzione degli incentivi indiretti. In un mercato perfetto, senza l'intervento della Confederazione, il loro surplus sarebbe pari all'area FOE, ma l'effetto degli interventi fa aumentare tale benessere all'area POA. Dunque, l'effetto della spesa della Confederazione per la promozione della produzione e lo smercio, è quello di aumentare la quantità scambiata, aumentare la produzione, aumentare il prezzo e aumentare il benessere dei produttori. In realtà avevamo visto nel paragrafo precedente, che il prezzo più elevato non si traduce automaticamente in un reddito più alto per i produttori e che, invece, ostacola la concorrenza e la produttività. L’area PFEA indicherebbe un aumento di benessere dei produttori soltanto in un mercato concorrenziale perfetto e per coerenza economica manterremo questa ipotesi.

 

Figura 4.4. Riduzione degli incentivi alla produzione e allo smercio

Fonte: mia rielaborazione del MUSU, Introduzione all’economia dell’ambiente, Il Mulino

 

 

Il discorso diviene interessante quando andiamo a vedere quello che succede nel caso che la spesa della Confederazione per la promozione della produzione e lo smercio cessi di esistere, o almeno si riduca. In tal caso il nuovo punto di equilibrio sarebbe il punto E (o un intorno destro del punto E). Il nuovo stato delle cose favorirebbe i consumatori, in quanto si vedrebbero aumentare il proprio surplus dell'area PFER. Ogni sforzo indirizzato alla riduzione degli incentivi indiretti aumenta il benessere dei consumatori. Il surplus dei produttori quindi, si ridurrebbe dell'area PFEA (in un mercato di concorrenza perfetta), in realtà la riduzione di benessere è inferiore all’area PFEA, anzi ci sarebbe un guadagno in termini di produttività e concorrenza. Il benessere privato si riduce del triangolo REA.

Il passaggio da un economia agricola sovvenzionata alla produzione e allo smercio ad una non sovvenzionata provoca dunque una diminuzione del benessere privato dell'area REA (ricordando sempre il fatto dell’inefficacità e non solo inefficienza, delle sovvenzioni indirette, almeno per il mercato del latte e caseario).

Ma cosa succede al benessere  pubblico? La spesa effettuata dalla Confederazione per promuovere la produzione e lo smercio dei prodotti agricoli è un costo per l’economia pubblica, facilmente quantificabile in 902 milioni franchi nel 2000. Tale valore viene prelevato ai contribuenti sotto forma di tasse che ovviamente riducono il benessere pubblico, collettivo. In realtà tali costi hanno la funzione di stimolare la domanda o di indirizzare i prodotti verso l’esportazione o nella trasformazione in derivati. Per semplicità economica diremo che tali costi sono pari all’area RVA. Quindi la sospensione delle sovvenzioni indirette della Confederazione creerebbe un aumento di benessere sociale pari all’area EVA. Ogni diminuzione degli incentivi indiretti crea un miglioramento dell’efficienza e un aumento di benessere.

Anche qui, come per gli incentivi diretti, si assiste ad un vantaggio in termini di sostenibilità. Togliere o ridurre gli incentivi indiretti crea un aumento del benessere pubblico, che migliora l’aspetto economico della sostenibilità.

Più delicato è analizzare l’aspetto ambientale; l’unica cosa che possiamo dire è che, riducendo la quantità prodotta, verosimilmente andremo a ridurre anche il danno ambientale (quindi le esternalità negative). Maggiore sarà l’impatto sull’ambiente e maggiori saranno i benefici sociali risultanti dalla riduzione del danno ambientale, al ridurre della quantità prodotta generata dalla riduzione degli incentivi indiretti.

Un ulteriore aspetto della riduzione degli incentivi indiretti sta nel miglioramento della competitività e concorrenza, anche sul piano internazionale, generati dalla diminuzione del prezzo (cfr. prossimo capitolo)

 

 

 

 

 

4.6. Relazioni tra riorientazione degli incentivi e riduzione degli incentivi indiretti. Effetti economici e ambientali

 

Dunque abbiamo visto i due aspetti della riforma agraria in Svizzera e abbiamo indagato le ragioni che hanno favorito la promulgazione del referendum. Abbiamo analizzato da un punto di vista economico in quali direzioni si sta spostando l’equilibrio tra domanda e offerta. Gli incentivi diretti sono stati riorientati verso l’ecologia, stimolando coltivazioni più rispettose dell’ambiente, e dall’altra parte sono in via di riduzione in special modo gli incentivi indiretti ovvero quelli per la promozione della produzione e lo smercio.

Guardando l’evoluzione delle uscite della Confederazione per agricoltura e alimentazione (v. tab 5.2.) notiamo una riduzione degli incentivi indiretti in favore di quelli diretti. È importante analizzare i due differenti interventi economici contemporaneamente e individuare il loro punto di arrivo. Se guardiamo la figura 4.6., si riconoscono i due differenti interventi:

·        il primo diretto alla riorientazione dei pagamenti diretti, dalla produzione all’ecologia , ovvero all’internalizzazione delle esternalità negative nell'agricoltura (sovvenzioni dirette);

·        il secondo diretto alla riduzione del sostegno della produzione e lo smercio (sovvenzioni indirette).

Guardando la fig.4.6., infatti, abbiamo rispettivamente il punto C e il punto E. Nel caso di una riorientazione dei pagamenti diretti verso l’ecologia, il mercato tende al punto C e nel caso di riduzione delle sovvenzioni indirette, il mercato tende al punto di equilibrio E.

Se, come sta avvenendo in Svizzera, tali eventi avvengono contemporaneamente, ci sarà uno spostamento dell’equilibrio di mercato dal punto A al punto X o almeno ad un intorno destro del punto X.

 

4.6.1. Cambiamento politico

Gli effetti della riforma agricola determinano uno spostamento verso sinistra del punto di equilibrio (figura 4.6). In altri termini entrambi gli interventi hanno un effetto di riduzione della quantità scambiata, cumulativo.

Abbiamo visto però, che questa riduzione della quantità scambiata non si traduce necessariamente in una riduzione del benessere, in quanto il primo intervento riduce contemporaneamente anche il danno ambientale, aumentando l’occupazione e l’efficienza sociale e il secondo aumenta il benessere del consumatore, migliora la concorrenza (vedi paragrafi precedenti) e riduce il danno. Di quanto si ridurrà la quantità scambiata? Ciò dipenderà dal successo e dagli obiettivi della riforma e dall’elasticità della domanda e dell’offerta. Una maggiore flessibilità dell’offerta e della domanda amplia l’effetto sulla produzione.

Tuttavia, se guardiamo la tabella 4.5. notiamo che questa diminuzione è iniziata prima della promulgazione della riforma (già a partire dagli inizi degli anni '90), causata anche da altri fattori come la congiuntura internazionale, i cambiamenti climatici, l’alterazione di certi equilibri e anche il rispetto di determinati oneri ecologici. Quindi la riforma è intervenuta quando il cambiamento era già cominciato, il cambiamento politico (seguendo certi livelli soglia) ha accompagnato e indirizzato il cambiamento economico, ovvero il cambiamento economico è stato interpretato e sostenuto dal cambiamento politico.

Conseguentemente c’è stata una riduzione del valore aggiunto al prezzo di mercato, di quasi il 50 % (tra il 1990 e il 2001). Tuttavia questa riduzione, non ha determinato una corrispondente riduzione del valore aggiunto lordo al costo dei fattori, in quanto le sovvenzioni dirette hanno parzialmente coperto tale calo tra il 10 e il 20% (tra il 1990 e il 2001). Le sovvenzioni dirette introdotte sono state in buona parte delle sovvenzioni all’ecologia, che hanno limitato la distorsione delle sovvenzioni alla produzione. Qui si trova una buona parte del vantaggio dell’intervento popolare (referendum) per la riforma dell’agricoltura. La politica ha saputo interpretare la realtà (abbassamento della produzione e aumento dell’inquinamento) e introdurre delle misure nuove (presenti già in parte in Europa), gli incentivi all’ecologia, creando benefici per i contadini, per i cittadini e per i consumatori.

 


Tabella 4.5. Evoluzione della produzione e del reddito dei contadini

Fonte: OFAG, 2000

 

Se continuiamo l’analisi della tabella 4.5, notiamo che il reddito totale netto del lavoro in agricoltura ha avuto un calo intorno al 25 %. Dato che alcune aziende hanno chiuso (v. anche 5.1.1.), il reddito pro-capite dei contadini non ha subito la stessa sorte. Secondo Ufficio federale dell'ambiente, delle foreste:Il reddito dei contadini si è stabilizzato: nonostante la sostanziale riduzione dei prezzi alla produzione, il reddito dei contadini ha potuto essere mantenuto, anche se a un livello più basso. Nel confronto con il resto della popolazione, qual’è la posizione finanziaria dei contadini svizzeri? Nel 1998, il reddito rurale per azienda (senza guadagno accessorio) ammontava a 73 000 franchi per le regioni di pianura e a 50 000 franchi per quelle di montagna. Nello stesso anno, le uscite medie delle economie domestiche svizzere - dove solitamente vive più di una persona attiva professionalmente - ammontavano a 89 000 franchi”[19].

L’impulso dato dalla società svizzera, nei suoi aspetti politici, economici e sociali, verso un’agricoltura sostenibile ha trasformato una situazione negativa da un punto di vista economico (diminuzione della produzione) in un occasione per mantenere i redditi dei contadini, internalizzare le esternalità.  La Svizzera, grazie ai suoi quattro fattori distintivi (v. fine par. 4.1.1.) ha saputo, se pur con un po’ di ritardo, interpretare la realtà e muoversi nella direzione giusta con un buon dinamismo. Un dinamismo che l’avvicina a quel modello di agricoltura sostenibile che è obiettivo di molti paesi sviluppati, ma che in svizzera dimostra un accelerazione maggiore, si prenda come esempio l’incremento di aziende biologiche e la percentuale di aziende a PI (tab 6 in appendice). La riduzione della produzione, pur cercando sempre di contrastarla, non è stata considerata il male peggiore.

 

4.6.2. Aspetto biologico della riduzione della produzione

Da un punto di vista fisico, sappiamo che le rese dell’agricoltura biologica sono minori. Uno studio[20], avvalorato anche dalla rivista americana Science, condotto su un periodo di 21 anni dimostra che le rese in agricoltura biologica sono in media l’80% delle rese in agricoltura convenzionale. Tale studio, avvenuto a Therwill (Basilea-campagna), riconosciuto anche dall’Università del Michigan, dice che la diminuzione della resa varia da pianta a pianta: 10 % in meno per il frumento, fino al 30-40 % in meno per le patate (a causa della carenza di potassio e della forte incidenza del mildu).

Peraltro l’agricoltura biologica è incredibilemente efficace, perchè ha impiegato dal 34 a 52% in meno di concimi minerali e energia fossile e il 97 % in meno di prodotti fitosanitari nell’arco di questi 21 anni. Il terreno mostra un fertilità maggiore ed una attività biologica doppia rispetto all’agricoltura convenzionale, il che dimostra i buoni rendimenti anche in assenza di apporti di concimi minerali. Il tenore in nutrienti solubili (fosforo e potassio) è minore, data la loro maggior velocità di reazione. Infine una presenza del 40 % in più di funghi permette un migliore nutrimento per le piante. L’agricoltura biologica (ancor di più la biodinamica) contribuisce a mantenere una grande biodiversità nonostante l’utilizzazione del suolo per fini agricoli.

L’economia, la politica e i rendimenti fisici, seppur con intensità e connotati diversi, attraverso un’agricoltura biologica seguono la stessa dinamica: una minor produzione, con aumento di benessere collettivo. In altri termini l’agricoltura diventa veramente sostenibile, in quanto interessa sia il piano politico, sociale, economico che quello ambientale. Cioè passando ad un’agricoltura biologica è naturale che ci sia una riduzione della quantità prodotta, assieme ad una grande riduzione del danno ambientale; tale riduzione si traduce solo parzialmente in una riduzione del reddito dei contadini.

 

4.6.3. Effetto sul prezzo: un’attrito di forze

I due interventi, ossia la eco-condizionalità degli incentivi diretti e la riduzione degli incentivi indiretti, hanno un effetto comulativo di riduzione della quantità prodotta (v. figure 4.2. e 4.4.). Essi, tuttavia, esercitano sul prezzo due forze contrarie:

·        Il primo intervento (v. par 4.4.), diminuendo sostanzialmente l’offerta, esercita sul prezzo una forza all’aumento.

·        Il secondo intervento (v. par 4.5.), diminuendo sostanzialmente la domanda, esercita sul prezzo una forza al ribasso.

 

In un mercato concorrenziale perfetto, tali effetti si bilanciano generando due casi diversi:

·        ll nuovo punto di equilibrio X ha ordinata maggiore rispetto al punto di partenza A, cioè f (X) ³ f (A) ovvero il prezzo aumenta.

·        Il nuovo punto di equilibrio X ha ordinata minore rispetto al punto di partenza A, cioè f (X) £ f (A) ovvero il prezzo diminusice.

 

La differenza di flessibilità tra domanda e offerta influenzerà il meccanismo.

Anche nella realtà ci sono state due forze contrarie e contrastanti che hanno determinato, nel periodo 1990-2000, sia un decremento dei prezzi alla produzione del 24%, sia un incremento dei prezzi al consumo del 7% (UFAG, Rapporto agricolo 2002). Per un confronto con gli altri paesi fino al 1998, si veda le tabelle 12 in appendice.

Tuttavia, il mercato agricolo è un mercato lontano dall’essere perfetto, dove il prezzo non esprime il libero incontro tra domanda e offerta, ma piuttosto il risultato di un’attenta e costosa politica di prezzo da parte degli stakeholders. Questo crea un attrito di forze tra politica (nel suo significato più ampio) che agisce per un prezzo generalmente più alto ma inefficiente, ed economia, che lascerebbe il prezzo equilibrarsi ad un livello inferiore, mettendo in pericolo il reddito dei contadini. Questo attrito di forze rimarrebbe inalterato o addirittura potrebbe aumentare se non fosse per una nuova “forza” che sta entrando sulla scena.

 

Figura 4.6. Effetti sul prezzo e sulla produzione agricole

Fonte: mia rielaborazione del MUSU, Introduzione all’economia dell’ambiente, Il Mulino

 

Inizialmente l’ambiente era visto come un costo aggiuntivo, come un sacrificio da sopportare da parte degli stakeholders. Questa iniziale e distorsiva percezione della realtà sta lasciando il posto ad una migliore interpretazione del valore ambiente, come opportunità del mercato di migliorarsi. Per quanto riguarda il mercato agricolo, infatti, introdurre il fattore ambiente significa trovare un punto d’equilibrio per ridurre gli attriti.

La contabilità del danno ambientale permette una visione più chiara del reale costo dell’agricoltura. In altri termini, il fatto di considerare come fattori produttivi soltanto capitale, terra e lavoro, mantiene l’economia in uno stato di alterazione con una produzione costante di costi ambientali che la società presente e futura è costretta a sostenere. La percezione dell’agricoltura come la risultante di terra, capitale e lavoro mantiene l’agricoltura convenzionale come la forma agricola più conveniente (v. anche par 5.3.3.). Se invece internalizziamo nel prezzo di produzione anche le esternalità negative, ecco che la forma agricola più conveniente diventa quella che minimizza i costi sociali, cioè la biodinamica o la biologica. Internalizzare le esternalità negative nel costo di produzione si traduce in aumento del prezzo di vendita, tuttavia bilanciato (almeno in parte) dalla riduzione degli incentivi indiretti che stimolavano la domanda. L’utilizzo contemporaneo dei due interventi (diretti e indiretti) garantisce ancora meglio la riuscita del progetto sostenibile (cfr fig 5.9.).

Da un punto di vista di contabilità pubblica la riduzione di spesa per gli incentivi indiretti (secondo intervento) viene riconvertita dalla Confederazione in incentivi diretti all’ecologia (eco-condizionalità), socialmente più efficienti.

Vedremo nel prossimo capitolo che in realtà non sono stati soltanto gli interventi pubblici a indirizzare l’agricoltura verso la sostenibilità.

 

4.6.4. Effetto sull’ambiente

L’internalizzazione delle esternalità negative sta avvenendo mediante l’uso degli incentivi. I contadini che rispettano di più l’ambiente, ricevano più incentivi. La realtà ci mostra infatti un cambiamento avvenuto in questi ultimi anni che conferma questa tesi (cfr par 5.3.2.). Una valutazione dell’impatto ambientale potenziale dell’agricoltura svizzera (SRVA, 2000) rivela dal 1980, e in modo più significativo a partire dal 1990, una netta riduzione dell’ecotossicità acquatica e di quella terrestre nell’ordine del 50 - 60 % nel 1998. Una riduzione più contentuta per la tossicità umana, l’eutrofizzazione totale e l’acidificazione dei suoli nell’ordine del 20 - 30 %, a seconda se prendiamo in considerazione l’impatto ambientale per ettaro o per energia alimentare prodotta. Una riduzione tra 0 e 10 % per la formazione d’ozono e l’effetto serra a 500 anni (cfr par 5.3.2). Infine un peggioramento delle condizioni ambientali per quanto riguarda lo sfruttamento delle risorse energetiche non rinnovabili tra il 10 e il 18 %  anche se bisognerebbe sempre contare il fatto che l’energia elettrica in svizzera proviene per metà da energia atomica e per metà da energia idroelettrica.

Franz Fischler commissario dell’agricoltura all’UE ha affermato: "La Svizzera ha realizzato un’agricoltura sostenibile esemplare per l’Unione Europea”. Se prendiamo l’esempio della tossicità acquatica ridotta del 50-60 %, ci rendiamo conto che questa si traduce in una riduzione dei costi di depurazione e di gestione delle acque in generale. ). Il professor Pretty ed altri (2001) hanno stimato che il costo annuale della contaminazione di acqua potabile con pesticidi sia, per la sola Gran Bretagna, approssimativamente 190 milioni di euro all’anno!  

Vedremo nei prossimi capitoli più nel dettaglio il miglioramento dell’impatto dell’agricoltura in Svizzera, che si traduce in una riduzione dei costi sociali che il danno ambientale crea.

 


5. IL SISTEMA TERRITORIALE SVIZZERO: UNA “V.I.A.” PER L’AGRICOLTURA SOSTENIBILE (CONCLUSIONI)

 

5.1. Cambiamento strutturale

 

Abbiamo già visto nel capitolo precedente il cambimento politico avvenuto negli anni ‘90.

5.1.1. Dell’offerta dei beni agricoli

C’è stato un mutamento strutturale delle aziende, a detrimento specialmente delle piccole aziende. Nel 2000 sono state censite complessivamente 28.200 aziende in meno rispetto al 1985. La metà di esse erano aziende di piccole dimensioni con una superficie compresa tra 0 e 3 ettari. Dall’inizio del periodo considerato è rimasto praticamente soltanto un terzo di queste aziende.

 


 Tabella 5.1. Evoluzione del numero di aziende agricole in Svizzera e in UE

Fonte: OFAG, Rapporto agricolo 2002; Eurostat, UST.

 

Si è cioè verificato un mutamento strutturale che ha aumentato le grandi aziende e ridotto drasticamente le piccole (OFAG, 2002). Il calo del numero di aziende agricole è un processo riscontrabile non solo in Svizzera, bensì anche nel resto d’Europa. In tabella 5.1. è illustrata l’evoluzione in Svizzera e in Paesi scelti dell’UE.

La Svizzera, come abbiamo visto, ha cercato di trarre beneficio da questo cambiamento strutturale. La crisi nel settore agricolo in altre parole è stata uno stimolo in più per concentrare gli sforzi verso la sostenibilità. La Svizzera ha ridotto notevolmente il suo impatto sull’ambiente, inteso nel suo significato più ampio, in quanto si possono ritrovare gli effetti anche a livello internazionale, nel rispetto degli impegni e nella riduzione delle emissioni inquinanti transfrontaliere.

L’analisi del Rapporto Agricolo 2002 (OFAG) ci mostra che il bestiame bovino è diminuito del 15% dal 2001 e le ragioni sono molteplici, da ricercarsi nella congiuntura internazionale, nella diminuzione delle aziende e nei maggiori oneri ecologici, mirati a migliorare le condizioni di vita degli animali (v. i programmi SSRA, URA nel par. 4.3.3. e tab 5 in appendice) che in pratica consistono in un aumento e miglioramento del loro spazio vitale. Anche qui la riforma, ha trasformato una tendenza negativa del mercato in un’occasione d’impulso verso la sostenibilità.

Dopo aver registrato, nel 2000, un lieve incremento, nel 2002 l’indice dei prezzi alla produzione è diminuito del 5,4 %. La flessione è riconducibile in particolare al basso livello dei prezzi nei settori cerealicolo e della produzione animale. Dal 1990/92 al 2001 i prezzi alla produzione sono dimuiti del 25 %, mentre quelli al consumo sono aumentati nello stesso periodo del 7 % [21].

Nel 2001 importazioni e esportazioni hanno subito un aumento del 2 % rispetto al 2000. La Svizzera produce il 60 % delle derrate alimentari consumate (espresse in calorie), con punte del 95% per i prodotti di origine animale e del 46 % nel 2000 per il settore vegetale.

La produzione finale, ossia il valore di tutti i prodotti del settore primario, ha subito una flessione del 4,7 per cento rispetto all’anno precedente: il 10,7 per cento in meno per piante e prodotti vegetali (252 mil CHF) e l’1,9 per cento in meno per animali e prodotti di origine animale (100 mil. CHF).

5.1.2. Del mercato del lavoro

Un cambiamento strutturale si è avuto anche nella composizione della forza lavoro, con una diminuzione di circa il 24 % di quella familiare ed un aumento del 5 % di quella extrafamiliare, nel periodo 1990-2000 (OFAG). Se escludiamo quindi la riduzione della manodopera familiare interessata dai mutamenti strutturali (riduzione di 1/3 delle piccole aziende), l’aumento della manodopera extrafamiliare conferma quanto asserito nel paragrafo 4.4.3. e cioè che le aziende agricole più rispettose dell’ambiente registrano una componente di manodopera extrafamiliare maggiore delle aziende non biologiche, specialmente per le aziende di pianura (cfr tab 5.4.). Ciò è dovuto direttamente al fatto che più l’agricoltura tende verso l’ecologia, più necessita di lavoro umano, sia prettamente meccanico, sia di natura scientifica, in quanto ogni coltivazione necessita di un approfondito e preliminare studio per determinare i metodi e i sistemi di protezione e concimazione alternativi.

Se infatti prendiamo come rifermimento che anche la produzione nello stesso periodo è diminuita del 25%, ci rendiamo conto che in termini relativi la manodopera familiare è rimasta stabile e quella extrafamiliare è aumentata più del 5%. Questi dati evidenziano il fatto che sono state soprattutto le piccole imprese familiari a uscire dal mercato, mentre si sono rafforzate quelle di più grandi dimensioni.

 

5.1.3. Della spesa della Confederazione

L’evoluzione delle uscite (v. tabella 5.2.) della Confederazione per produzione e smercio (incentivi indiretti) è in funzione dell’adempimento di quanto previsto dall’articolo 187 capoverso 12 delle disposizioni transitorie della nuova Lagr (riforma), secondo cui, cinque anni dopo l’entrata in vigore della legge, i mezzi finanziari impiegati nel settore del sostegno del mercato vanno ridotti di un terzo rispetto alle spese per il 1998. Sulla base di tale disposizione, nel quinquennio in questione la riduzione dovrà corrispondere a 400 milioni di franchi circa. Nel 1998 le uscite per produzione e smercio erano state di 1'203 milioni di franchi, nel 2001 di 902 milioni di franchi. In questi tre anni i mezzi finanziari sono quindi stati ridotti di 301 milioni di franchi (783 milioni dal 1990).

 Se tuttavia andiamo a vedere i valori relativi notiamo che le uscite della Confederazione per produzione e smercio erano nel 1990 attorno all’8,7 % delle uscite totali, nel 1999 arrivavano oltre il 9 %, mentre nel 2001 sono scese sotto l’8 %. Oltre l’1% di spesa totale risparmiata! Sappiamo quanto sia politicamente difficile tagliare la spesa senza procurare malcontenti nella popolazione.

 


Figura 5.2. Evoluzione della spesa agricola della Confederazione

Fonte: OFAG, Rapporto 2002; Conto dello Stato.

 

 

 

5.1.4. Del conto economico delle aziende

Nella tabella 5.3. notiamo l’evoluzione del conto economico nelle aziende. Notiamo immediatamente che i contributi dello Stato (sovvenzioni) sono aumentati dal 1990. Ma dal grafico non si nota che tale variazione è stata anche di carattere qualitativo, nel senso che gli incentivi all’ecologia hanno sostituito quelli alla produzione. In altri termini la Confederazione ha diminuito gli incentivi indiretti e diretti alla produzione, per trasformarli in incentivi alla sostenibilità.

La riforma ha indirizzato il mutamento del mercato verso la sostenibilità, in altri termini ci si è resi conto della crisi del settore e si è cercato di trasformare il cambiamento già in atto per ridurre il danno ambientale, migliorando l’efficienza sociale. Una certa tendenza, verso una riduzione della quantità prodotta e aumento della qualità, si era fatta sentire anche prima della riforma; la riforma ha semplicemente saputo sostenerla e meglio indirizzarla ai fini della sostenibilità.

Nella tabella 5.3. abbiamo l’esempio concreto di quanto esposto in figura 4.6, circa l’efficienza sociale in agricoltura. Avevamo detto essere A l’equilibrio di partenza di un mercato ad agricoltura convenzionale dove non erano state internalizzate le esternalità (v. par. 4.4.2.). La quantità scambiata era Q2, con una certa emissione di danno ambientale, con presenza d’incentivi diretti alla produzione.

 

Figura 5.3. Evoluzione del conto economico dell’agricoltura

 

Fonte: OFAG, Rapporto Agricolo, 2002; USC.

 

Nell’esempio concreto del mercato agricolo svizzero il nostro Q2 corrisponde a 10.006 CHF. Cioè nel 1990 la produzione agricola, stimolata anche dagli incentivi alla produzione (sia diretti che indiretti), era di ca. 10.000 milioni di CHF, con produzione di un certo quantitativo di danno ambientale. Gli incentivi indiretti erano 1.685 (1990) milioni di CHF e incentivi diretti (alla produzione) erano 772 (1990) milioni di CHF. La riduzione degli incentivi indiretti a 902 milioni (2001) e la sostituzione degli incentivi diretti con quelli all’ecologia (2.300 milioni), hanno partecipato a ridurre la produzione fino a 7.300 milioni, che rappresenta appunto un’intorno destro del punto f(Qx) = X (cfr. par 5.4.1.). Questa diminuzione non è stata combattuta, ma semplicemente canalizzata verso la sostenibilità. Il prezzo si è stabilizzato sul segmento che va da E a C (fig. 4.6.), il prezzo ha subìto due forze contrastanti (v. la comparazione con altri paesi fino al 1998, tab 12 in appendice):

·        Aumento: il prezzo al consumo è umentato del 7%  (v. par 5.1.1.) e ha fatto tendere il mercato agricolo verso quel punto C (v. figura 4.2.), che rappresenta il punto d’arrivo di un agricoltura che ha internalizzato le esternalità, migliorando l’efficienza sociale;

·        Riduzione: il prezzo alla produzione è diminuito del 25%, facendo tendere il mercato agricolo verso il punto A (v. figura 4.3.), che rappresenta il punto nel quale il mercato agricolo ha ridotto le distorsioni date delle sovvenzioni indirette, migliorando l’efficienza sociale.

Vedremo, poi, con la figura 5.9. e nel paragrafo 5.4.4., come si traduce graficamente la transizione verso la sostenibilità del sistema territoriale svizzero.

5.1.5. Della volontà comune per un’agricoltura sostenibile. Il principio di neutralità

Considerando il grafico 4.6, notiamo che il nuovo punto d’equilibrio, sul quale il mercato si è stabilizzato, potrebbe essere un intorno destro del punto X (cfr. par. 4.6.3.), ammettiamo di aver superato il segmento che lega A a C (v. 5.4.1.). Se questo risultasse vero gli stakeholders (cittadini, consumatori, produttori, elettori, amministratori) esprimono, consapevolmente o inconsapevolmente, tramite le loro scelte (referendum, consumo, produzione) e tramite il mercato, una volontà comune, quella di un’agricoltura più sostenibile e più rispettosa dell’ambiente.

Ma come si è potuto raggiungere un tale obiettivo? Un sistema territoriale è formato da relazioni tra i soggetti e l’esteriorità, ma l’esteriorità non è sotanto l’ambiente, ma anche il mercato stesso. Le relazioni tra i soggetti avvengono tramite il mercato e l’ambiente, nel nostro caso anche tramite l’agricoltura. Per capire meglio tale obiettivo dobbiamo vedere dove si forma questa volontà comune del sistema territoriale svizzero alla sostenibilità (per territorialità nel tempo v. par 4.1.3.).

La definizione di territorialità (v. par 1.1.2.), infatti, impone come obiettivo, la massima autonomia, compatibile con le risorse del sistema. Non a caso, l’obiettivo della politica agricola svizzera è sempre stato quello dell’autonomia, si vuoleva che l’agricoltura interna bastasse per soddisfare i bisogni interni. Le ragioni di ciò risalgono al periodo delle due Guerre Mondiali, nel quale la Svizzera, confinata in una posizione di neutralità, doveva farsi carico da sola dei suoi bisogni interni; sono delle ragioni “dettate dalla fame” e dal rispetto di certi ideali. Il principio di neutralità diventa quindi un pre-requisito importante, non esclusivo, per raggiungere l’autonomia.

Un’autonomia agricola inseguita al prezzo dell’isolazionismo, del protezionismo, delle politiche di prezzo selvagge, della perdità di competitività, ma mai realmente raggiunta. Simbolo di tale autonomia è sempre stata la “mucca”, (più protetta che in India) da sempre fonte alimentare promiscua (latte, formaggi, carni) e di pelli e, in passato, anche fonte di energia animale per il traino dell’aratro e il trasporto; basti vedere l’enorme e spropositato livello di aiuti che la Confederazione accordava all’economia lattieria (v. tabella 4.3.), pari al 74% del totale degli incentivi indiretti (uscite per produzione e smercio) per l’anno 2000.

 Il pre-requisito della sostenibilità è l’autonomia (cfr. 4.1.3.) e il pre-requisito, non esclusivo, dell’autonomia è la neutralità e, chiuderei il cerchio dicendo che, il pre-requisito per la neutralità dovrebbe essere la sostenibilità. La neutralità non si deve limitare soltanto all’aspetto economico (talvolta messo in discussione con il “segreto bancario”), all’aspetto politico (la Svizzera sta entrando solo adesso nell’ONU), all’aspetto sociale, ma si deve estendere a quello ecologico (le esternalità hanno carattere globale, cfr. cap 3). Attraverso l’agricoltura sostenibile, la volontà comune, sembra aver trovato anche una direzione comune.

In questa direzione comune, sono contenuti sia l’aspetto valutativo, sia l’aspetto decisionale. Gli stakeholders compiono una valutazione (consapevole o meno) del valore da dare all’ambiente e all’agricoltura, successivamente essi scelgono, con pesi diversi, attraverso il consumo, i referendum, la produzione. Il punto centrale di tale meccanismo è l’associazione tra la performance ambientale e la performance aziendale. Chi meno inquina più guadagna. Ci sono cioè delle economie di scala crescente legate alla performance ambientale.

 

5.2. Il mercato dell’agricoltura biologica

 

L’agricoltura biologica costituisce il traino dell’agricoltura verso un’agricoltura sostenibile.

5.2.1. Domanda e offerta

La politica agricola (PA 2002) costituisce per l'agricoltura e il settore agroalimentare un gioco di scala. Le famiglie contadine hanno reagito al cambiamento in maniera egregia. Esse hanno preso misure per la riduzione dei loro costi di produzione (per esempio intensificando la collaborazione tra di esse), hanno trovato l’occasione di realizzare dei redditi accessori (esempio vendita diretta), hanno intensificato le loro attività di pubbliche relazioni e si sono prese la responsabilità di lavorare anche nel settore della promozione e della vendità. Molte di loro, tuttavia sono arrivate al limite delle loro capacità.

L’Union Suisse des Paysan[22] afferma che l’agricoltura tende verso la multifunzionalità offrendo alla collettività prestazioni concorrenziali, diversificate e localmente adatte, riuscendo a guadagnare in termini di efficienza.

Dal lato dell’offerta, le vendite bio in Svizzera hanno superato la soglia di un miliardo di CHF. L’agricoltura biologica ha registrato una crescita del 6% dal 2002 al 2003. Oggi circa 6500 contadine e contadini svizzeri praticano un’agricoltura biologica, che corrisponde all’11 % dell’insieme degli agricoltori. In particolare i prodotti freschi (prodotti lattieri, carne, frutta e verdura) hanno una crescita sostenuta. Persistendo su una strategia di qualità, Bio Suisse previene il pericolo di una sovrapproduzione. L’adozione costante delle nuove disposizioni è all’origine di un aumento dei costi di produzione, mentre la diminuzione dei prezzi alla produzione è un motivo d’inquetudine per gli agricoltori svizzeri. Le colture biologiche occupano oggi più di 1/10 della totalità della superfice agricola utile.

Leader incontrastato dell’agricoltura biologica resta il canton Grigioni con il 50% di coltivazioni biologiche, mentre la svizzera romanda possiede meno agricoltori bio, ma ha un tasso di crescita superiore alla media nazionale (14%).

Dal lato della domanda, le vendite sono aumentate del 13% nel corso dell’anno 2002 per raggiungere 1056 milioni di CHF (700 milioni di euro), superando la soglia del miliardo di CHF. Ogni svizzero ha comprato in media 144 CHF di prodotti biologici.

Accordando la priorità assoluta alla qualità, Bio Suisse spera di equilibrare l’offerta alla domanda al fine di evitare la creazione di un “mare di latte”. La limitazione sull’utilizzazione di alimenti concentrati, l’approvvigionamento degli animali con fieno, le severe norme per la coltivazione del foraggio, il divieto di comprare tori nati da inseminazione artificiale o il divieto di dressaggio elettrico per la vacche non sono che alcune prescrizioni dettate da Bio Suisse. Oggi quasi tutte le aziende producono rispettando per lo meno i criteri della Produzione Integrata (PI).

 

5.2.2. Confronto tra aziende a coltivazione biologica e non biologica[23]

Nel rapporto che ne è sortito, i risultati contabili delle aziende a coltivazione biologica (CB) sono comparati con quelli delle aziende a coltivazione non biologica (CNB). Ogni coltivazione biologica è comparata ad una non biologica che presenti condizioni di produzione comparabili. I criteri di selezione sono i seguenti:

·        Condizioni locali: le coltivazioni prese in comparazione devono essere situate nella stessa zona di produzione (pianura, collina, montagna), ma non si tengono in considerazione le diverse condizioni climatiche.

·        Struttura di produzione: la struttura di produzione della CB e della sua corrispettiva CNB devono essere identiche, in quanto fornisce preziose informazioni circa le caratteristiche naturali del sito (porzione delle terre a solatio o di quelle foraggere), i dati della coltivazione  (porzione del bestiame, manodopera, cosi come le capacità e le qualità del gestore della coltivazione.

·        Rapporto di proprietà: il rapporto di proprietà delle coltivazioni comparate deve essere equivalente, condizione indispensabile per raffrontare le cifre contabili dell’insieme della coltivazione, ossia serve per dare un valore contabile alle comparazioni relative, non soltanto all’attivo e al passivo, ma a tutta la struttura del capitale, come l’affitto, gli interessi sui debiti o l’interesse sul capitale proprio investito nella coltivazione.

·        Grandezza fisica della coltivazione: la superficie agricola utile (SAU) serve come indice per determinare tale grandezza. Si selezionano quindi delle CNB la cui grandezza corrisponda il più possibile a quella della CB comparata.

 

Sono considerate come coltivazioni biologiche le coltivazioni che soddisfano i criteri fissati nell’Ordinanza sull’agricoltura biologica (RS 910.18) e quelle che, secondo il servizio contabile competente, praticano l’agricoltura biologica da più anni o hanno ottenuto la certificazione di conversione all’agricoltura biologica.

Nell’analizzare i dati del Rapporto (tabelle 5.4. e 5.5) ho incontrato alcune difficoltà :

 

I dati qui riportati non contengono la prima parte del Rapporto, che per esigenze di spazio non ho potuto riportare e che dunque andrò a sintetizzare qui di seguito. In tali dati si evidenziava in modo specifico l’analisi comparativa per ogni tipo qualitativo di coltura e per ogni tipo di animale di allevamento, ovvero per ogni ramo di produzione.

Le minori rese per le CB confermano quanto detto nel par. 4.6.2. sui rendimenti fisici. In media, negli anni tra il 1998 e il 2000, i rendimenti dei cereali panificabili ottenuti dalle  CB arrivano al 71 % del rendimento fisico realizzato dalle CNB. Per quanto riguarda i cereali da foragggio le CB arrivano sino al 80 % del rendimento fisico realizzato dalle CNB. Ma la minor resa fisica è generalmente più che compensata dal prezzo più elevato che determina un margine contabile maggiore per le CB, il che conferma quanto affermato nel par 4.4. e cioè che il mercato, e non solo tramite gli incentivi, premia l’agricoltura biologica con prezzi più elevati. Nel 2000 i cereali panificabili hanno beneficiato di un prezzo  più elevato (dal 43 % al 79 % di differenza a seconda della varietà) e di costi per la protezione dai parassiti e per la concimazione nettamente più bassi, il che ha fatto registrare per le CB dei profitti ben superiori rispetto alle CNB corrispondenti. Quanto all'orzo e all'avena, i margini contabili rilevati nel 2000 per le CB ammontano rispettivamente a 102 % e 106 % dei margini realizzati dalle CNB  equivalenti. Per la coltivazione di patate, nonostante un rendimento fisico del 66 %, l'agricoltura biologica realizza un margine contabile del 113 % maggiore rispetto all'agricoltura non biologica comparata. I margini contabili dell'allevamento dei maiali nel 2000 sono praticamenti equivalenti per i due gruppi. Ma la comparazione su più anni mostra che il margine contabile degli allevamenti biologici è più elevato. Gli allevamenti biologici realizzano un prodotto nettamente più elevato, ma essi devono, allo stesso tempo, supportare maggiori costi per gli alimenti per ogni kg di crescita. Nel caso dell'allevamento della galline ovaiole, i due gruppi rilevano margini contabili differenti nel 2000. Grazie al prezzo di vendita più alto, i risultati contabili degli allevamenti biologici sono nettamente superiori a quelli degli allevamenti non biologici comparati, e questo malgrado i costi maggiori per gli alimenti. In tutte le zone di produzione, la performance riguardante la quantità di latte prodotta da ogni mucca è minore negli allevamenti biologici, ma questa differenza è più che compensata dal prezzo di vendita del latte biologico (regolato in parte con i contingenti), dal minor costo degli alimenti complementari e dai minori costi veterinari, permettendo margini contabili maggiori.

Conformemente ai criteri di selezione, le coltivazione dei due gruppi comparati presentano una taglia media simile. Esistono tuttavia delle differenze relative all'utilizzazione dei suoli. Le CB  in pianura presentano una zona leggemente maggiore di superficie orticola e di pascoli, ma inferiore di cereali da foraggio e di mais d'insilamento (silos). Nel 2000 nessuna azienda agricola biologica ha coltivato barbabietole da zucchero e soltanto una volta della colza. Inoltre l'allevemento biologico detiene dei capi di bestiame leggermente più piccoli, rispetto a quelli non biologici.

Successivamente il Rapporto compara le coltivazioni secondo un lavoro d’insieme che raggruppa i vari rami della produzione  (tab. 5.4.). Le coltivazioni che praticano l'agricoltura biologica sono nettamente meno intensive che le CNB comparate, ciò si riflette sui rendimenti fisici delle grandi colture, sul numero di animali per SAU, sulla superficie destinata alla produzione di foraggio per unità di bestiame, in quanto consuma del foraggio invece che alimenti complementari.

 

Tabella 5.4. Rapporto tra aziende coltivazioni biologica e non – Stato Patrimoniale

RAPPORTO  2000  SULLE  COLTIVAZIONI   PRATICANTI  L'AGRICOLTURA  BIOLOGICA  -  STATO  PATRIMONIALE

 

Coltivazioni di pianura

Coltivazioni di montagna

Insieme delle coltivazioni

Tipo di coltivazione

Non bio

Bio

Non bio

Bio

Non bio

Bio

Non bio

Bio

Non bio

Bio

Non bio

Bio

ANNO

1998-2000

2000

1998-2000

2000

1998-2000

2000

N° di coltivazioni

204

204

68

68

440

440

158

158

644

644

226

226

in zona di pianura

146

146

49

49

0

0

0

0

146

146

49

49

in zona di collina

58

58

19

19

0

0

0

0

58

58

19

19

in zona di montagna

0

0

0

0

440

440

158

158

440

440

158

158

in proprietà

190

190

64

64

415

415

150

150

605

605

214

214

in affitto

14

14

4

4

25

25

8

8

39

39

12

12

SAU aziendale (in ha)

18.77

18.8

19.29 

19.37 

19.91 

19.94 

20.05 

20.1 

19.55 

19.58 

19.82 

19.88 

Famiglia e mano d'opera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lavoratori totali  coltivaz

1.8

1.94

1.75

1.9

1.66

1.64

1.64

1.6

1.71

1.74

1.67

1.69

a) del nucleo familiare

1.39

1.35

1.35

1.34

1.44

1.42

1.44

1.42

1.42

1.4

1.41

1.4

b) salariati del nucleo familiare

0.11

0.12

0.1

0.12

0.06

0.06

0.06

0.05

0.08

0.08

0.07

0.07

c) salariati esterni nucleo fam

0.3

0.47

0.3

0.44

0.16

0.16

0.14

0.13

0.21

0.26

0.19

0.22

lavoratori del nucleo fam (%)

77

70

77

71

87

86

87

89

83

81

84

83

taglia della famiglia

3.5

3.7

3.5

3.7

3.5

3.6

3.4

3.7

3.5

3.7

3.4

3.7

STATO PATRIMONIALE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

numero delle coltivazioni

190

190

64

64

415

415

150

150

605

605

214

214

attivo (CHFr)

846071

850582

879746

899903

600003

700060

608968

724271

677397

747430

689948

776796

() dell’azienda

787498

785704

823718

834836

575515

650550

586390

673436

641804

693203

657366

721705

() dell'impresa annessa

58573

64878

56028

65067

24488

49510

22578

50835

35593

54227

32582

55091

§ attivo finanziario

122687

138288

126581

145725

75670

104255

75224

117146

90709

115198

90583

125692

§ attivo della coltivazione

723384

712294

753165

754178

524333

595805

533744

607125

586688

632232

599365

651104

  ~ stock e giacenze

27620

26949

29217

30000

20814

19217

21446

20146

22956

21651

23770

23093

  ~ bestiame

52350

46026

56441

50499

42390

39496

44669

41111

45485

41484

48190

43919

  ~ bestiame morto

49451

52752

47153

51378

53090

56110

52333

53509

51832

55078

50784

52872

  ~ piante

12170

9903

11148

9052

5865

5345

5437

5943

7812

6793

7145

6873

  ~ immobili e fabbricati

479321

473990

503177

508903

341298

407121

348050

412440

384694

427700

394443

441289

  ~ terre e migliorie

92875

93671

94513

94236

53799

59868

54287

65027

66043

70780

66317

73762

passivo (CHFr)

846071

850582

879746

899903

600003

700060

608968

724271

677397

747430

689948

776796

debiti

365576

343489

371111

358676

252384

279282

263120

281187

287983

299791

295416

304361

  ~ a breve termine

13809

18248

12801

14979

14159

15388

15288

14427

14148

16360

14544

14592

  ~ debiti d'investimento

53329

49270

60131

47374

57254

57658

55345

56026

55884

54963

56776

53438

  ~ debiti ipotecari

188855

148807

170927

158851

117364

127323

124067

138574

139907

134456

138081

144638

  ~ altri debiti

109583

127164

127252

137472

63607

78913

68420